Alla lettura del dispositivo del maxi processo Infinito, accompagnata da un apparente stato di sacralità, seguono ingiurie e minacce. Non passa nemmeno un secondo dall’ultima parola pronunciata dal presidente dell’ottava sezione penale Maria Luisa Balzarotti, che l’aula esplode in un assordante boato di insulti.
I magistrati posano i fogli della sentenza sul banco, sollevano i faldoni, voltano le spalle ai presenti e lasciano l’aula: il loro lavoro, almeno per oggi, è terminato. La cinepresa si stacca e sposta l’obiettivo correndo velocemente verso la parte opposta della stanza: passa rapida sul volto del pubblico ministero Alessandra Dolci e gli uomini della scorta; sulle toghe nere degli avvocati, fra cordoni oro e argento; soffia sui taccuini dei giornalisti che improvvisamente si voltano incuriositi dal rumore e sale, sale lungo la gradinata circondata dalle sbarre: è lì che si dimenano amici e parenti degli imputati. Da qui arriva il frastuono. Un grande e falso applauso – il suono del disprezzo – invade il bunker di piazza Filangieri.
Ad essere processata a Milano è la ‘ndrangheta al Nord, l’associazione criminale di stampo mafioso nata in Calabria e capace di salire lo stivale fino a corrodere la capitale morale del Paese, la politica e le sue imprese. Quaranta le condanne di primo grado pronunciate giovedì 6 dicembre a conclusione del rito ordinario di Infinito, in un pomeriggio freddo e confuso di inizio inverno. Pene da 3 ai 20 anni, risarcimenti fino a 1 milione e 200 mila euro. Un dirigente sanitario, un commercialista esperto in finanza, lombardissimi imprenditori del movimento terra con esperienza pluriennale nell’edilizia, carabinieri che indossano la divisa per proteggere i capi delle cosche; e poi: carpentieri, padroncini, autotrasportatori, trafficanti d’armi in pensione, rivenditori di automobili. Un mondo stratificato, quasi dantesco, differente al suo interno per ambiente culturale, classe sociale e linguaggio. C’è chi ha studiato e ha un lavoro ottimamente retribuito, come Carlo Antonio Chiriaco, odontoiatra amico dei politici ed ex vertice dell’Asl di Pavia, condannato a 13 anni. C’è chi ha distrutto per sempre la solida impresa di famiglia che nel comasco dava lavoro a molte persone, mettendola irrimediabilmente nelle mani delle cosche in cambio di fallaci vantaggi: una vita sopra la media, feste e auto di grossa cilindrata. E’ il caso di Ivano Perego, lombardissimo titolare della Perego General Contractor. Gli anziani genitori di Ivano li si distingue subito, fra il pubblico presente in aula che muove convulsamente braccia e mani: composti nel vestire, biondi, nordici nello sguardo e nel pallore del viso, si isolano dai parenti degli altri imputati dai vestiti griffati e sberluccicanti con cui pensano di avere poco in comune. Ma la Lombardia non è mai stata più Sud di oggi, e la conseguenza è di fronte ai loro occhi: il figlio si assomma le colpe di un’intera generazione di negazionisti opportunisti che per decenni hanno sminuito il problema infiltrazione, ed è condannato a 12 anni per partecipazione in associazione mafiosa per aver appoggiato il boss di Seregno Salvatore Strangio nei suoi affari, fra cui la corsa agli appalti rhodensi di Expo 2015. Condannato a 10 anni e 10 mesi Cesare Rossi, 70enne originario di Tropea e residente a Nerviano in provincia di Milano, piccola cittadina di 18mila abitanti bagnata dall’Olona. Qui, nel magazzino del signor Rossi, uomo distinto, capelli bianchi e baffo curato, si sono svolti importanti summit di ‘ndrangheta. Gli affiliati sfruttavano la tipica tradizione calabrese della macellazione del maiale per potersi incontrare in gran numero fra compaesani senza destare particolari sospetti fra gli autoctoni lùmbard. “Razzisti, bastardi, pezzi di merda: siete voi i mafiosi”: anche i condannati, da dentro le gabbie, non risparmiano frasi ingiuriose contro la magistratura e i giornalisti presenti in aula. “Si costituisce parte civile, ma è la Regione Lombardia ad essere mafiosa, Formigoni è mafioso, questa è l’Italia!”. Una donna bruna e minuta si accascia per terra: è Angelica Riggio, la giovane fidanzata del sessantasettenne Pio Domenico. Si dimena sul pavimento, grida, piange. Lui, condannato a 16 anni di carcere, responsabile delle estorsioni di Desio, comune lombardo della provincia di Monza e Brianza; lei, condannata a 6 anni e 6 mesi, complice e vicaria degli affari dell’amante ‘Mimmo’.
Infinito è lo specchio di quella parte di società lombarda in cui la politica dell’arrivismo si è intrecciata ad un’economia criminale nel più indifferente silenzio delle Istituzioni, mietendo sul proprio cammino vittime di racket e usura, aziende fallite e persone costrette dal timore a versare reverenzialmente i propri soldi nelle casse della ‘ndrangheta. ‘Massoneria dei poveri’, così la definisce l’avvocato tributarista Pino Neri che nell’ottobre 2009 partecipa al tristemente celebre summit di Paderno Dugnano organizzato al circolo Arci Falcone e Borsellino. Sotto il quadro che ritrae i due magistrati, Neri prende le redini dell’associazione criminale riconfermando la stretta dipendenza dagli affiliati residenti e operanti in Lombardia alla casa madre, conferma necessaria a seguito dell’uccisione del boss secessionista Carmelo Novella morto sparato un anno prima a San Vittore Olona. Per Neri, laureato a Pavia con una tesi sulla ‘ndrangheta e condannato oggi a 18 anni di carcere, è tutta una questione di folclore. Ma quali summit e summit: solo mangiate tra meridionali migrati al settentrione, soppressata piccante e vino buono. Minacce e concorrenza sleale fra le imprese edili? Macchè, è un’idea tutta dei polentoni visionari: fra calabresi ci si conosce tutti e ci si aiuta sempre. Anche ad andare in galera e a restarvici, caro Pino.