di Alessandra Venezia e Demetrio Villani
Sesta udienza del processo Caccia: dopo la deposizione dell’ispettore della Squadra Mobile di Torino Massimo Cristiano lo scorso 2 novembre, giovedì 9 novembre è toccato al boss di ‘ndrangheta Domenico Belfiore, già condannato in via definitiva per essere il mandante dell’omicidio, e al collaboratore di giustizia Vincenzo Pavia.
Milano, 9 novembre. Le porte della Corte d’Assise si aprono alle 9.30, l’aula è gremita. Presiede la Corte il giudice Ilio Mannucci, presenti gli avvocati Foti e Anetrini per la difesa dell’imputato Schirripa, il pm Tatangelo, l’avv. Repici per i familiari del magistrato e gli avvocati in rappresentanza della Regione Piemonte, della Città di Torino e del Ministero di Grazia e Giustizia. Fra il pubblico ci sono i familiari del giudice Caccia, i parenti dell’imputato e dei testimoni, i volontari e le volontarie di Libera Piemonte e di Libera Milano.
Si prospetta un’udienza densa e decisiva: sono infatti previste due importanti testimonianze. La tensione è palpabile, tutti aspettano l’ingresso in aula di Domenico Belfiore, citato per riferire sui fatti per i quali ha subito un processo con condanna definitiva. Sono le 9.45 quando fa il suo ingresso in aula: è in carrozzina, accompagnato da un’infermiera e dalla figlia. Poiché il suo avvocato personale è assente per malattia, gli è stato assegnato un avvocato d’ufficio, l’avv. Schirò, con cui definisce la strategia processuale; essendo infatti Belfiore un semplice testimone può avvalersi della facoltà di non rispondere ma, dal momento che è assistito in giudizio, nel caso in cui risponda gli è richiesto di giurare e di dire la verità, pena falsa testimonianza. Di fronte a questa prospettiva presentatagli dal giudice Mannucci, Belfiore non solo accetta di procedere ma lo fa con arroganza e spavalderia: “Sono venuto apposta, voglio che sia fatta giustizia”.
Ha inizio l’interrogatorio. Il testimone, prima di iniziare a rispondere, esplicita la sua volontà di non essere ripreso. Per la prima parte Belfiore collabora e risponde alle varie domande: nega di appartenere alla ‘ndrangheta, nega ogni suo coinvolgimento nell’omicidio Caccia (“io non ho mai partecipato a nessun tipo di incontro preparatorio dell’omicidio, non avevo ragioni!”), nega di aver avuto rapporti stretti con alcuni personaggi rilevanti nel panorama mafioso piemontese (tra cui Francesco Miano, Roberto Miano, Placido Barresi, Vincenzo Pavia, Gianfranco Gonella) ed infine riduce a mera conoscenza il suo legame con l’imputato Schirripa. “Tuttavia a me risulta che lei è stato il padrino della figlia di Schirripa. È corretto?” obietta il pm. A questo punto il boss si lascia sfuggire una prima dichiarazione emblematica: “Sa, forse me l’hanno chiesto perché le persone mi vogliono bene e mi rispettano” e il magistrato ribatte riproponendogli la domanda sulla sua appartenenza alla ‘ndrangheta. La risposta è ancora negativa.
In seguito a ciò Belfiore sfrutta l’occasione per riaprire le questioni inerenti alla sua responsabilità nell’omicidio Caccia, dilungandosi e polemizzando rispetto alla sua condanna “ingiusta”. Dopo un acceso invito del giudice Mannucci a limitarsi a rispondere in modo pertinente alle domande, Belfiore cessa di collaborare, chiudendosi in un muro di omertà e denunciando l’impossibilità di far valere le proprie ragioni. Da allora è solo un “non ricordo”, “non so”. La sua volontà di collaborazione diminuisce ulteriormente quando il pm inizia a leggere alcuni estratti delle intercettazioni del 2015 (di cui aveva riferito l’ispettore Cristiano): quelle conversazioni telefoniche, infatti, paiono contraddire le affermazioni di Belfiore in aula. Se fino a quel momento il boss aveva dato prova di ricordare perfettamente fatti avvenuti trent’anni prima, improvvisamente i dialoghi e gli eventi di appena un anno fa sono per lui “oscuri e decontestualizzati”. Ciò che colpisce dell’interrogatorio di Belfiore è soprattutto la sua naturale tendenza a prevaricare, persino giudici e avvocati, forse perché abituato a dettare legge e non a sottoporvisi. Sono le 14.30, dopo quasi cinque ore di interrogatorio serrato, il giudice congeda il testimone e il pubblico dell’udienza per la pausa pranzo.
Un’ora dopo, in un’aula semideserta, riprende il dibattimento. Un’altra figura di spicco è chiamata al banco dei testimoni: si tratta di Vincenzo Pavia, collaboratore di giustizia con un ruolo chiave nelle indagini. È grazie a lui, infatti, che sono state scoperte numerose informazioni sull’omicidio Caccia. Appaiono da subito evidenti sia una maggiore disponibilità a collaborare, sia numerose contraddizioni con la versione dei fatti riportata poco prima da Belfiore. Una prima discrepanza riguarda il rapporto personale tra i due, infatti secondo il boss la loro era una conoscenza superficiale, mentre secondo Pavia si trattava di un legame più profondo. A questo punto Pavia entra nel merito dell’organizzazione dell’omicidio Caccia, affermando di aver partecipato a più incontri preparatori a cui erano presenti Domenico Belfiore, Giuseppe Belfiore e Placido Barresi.
In seguito a tali dichiarazioni, si entra nel vivo dell’interrogatorio. Le domande degli avvocati e del pm sono incentrate su fatti contenuti nei verbali delle precedenti testimonianze dello stesso Pavia: mentre la responsabilità dei Belfiore e di Barresi si conferma come certa oggi come allora, quella di Schirripa, al contrario, non è supportata da prove concrete. Infatti, rispondendo alle domande incalzanti e mirate del difensore dell’imputato, l’avv. Anetrini, Pavia dichiara: “All’epoca ho fatto il nome di Schirripa solo per dare una mano ai magistrati, in quanto sapevo della sua frequentazione con i Belfiore, ma non ho mai avuto notizie certe sulla sua partecipazione all’evento, poiché io sono uscito dall’organizzazione dell’omicidio tempo prima della sua attuazione”. Poco prima dell’intervento di Anetrini, è invece intervenuta la difesa dei familiari, l’avv. Fabio Repici, il quale, nonostante i continui richiami del giudice, ha tentato di allargare il campo d’azione dell’indagine con domande sulle responsabilità generali che ruotano attorno all’omicidio.
Dopo quasi nove ore, giunti alla conclusione dell’udienza, un’ultima dichiarazione del testimone apre una questione di grande rilevanza e delicatezza. Pavia fa il nome di Gianfranco Gonella, figura chiave nei rapporti tra magistratura e mondo criminale piemontese degli anni ’80, rivelando di aver partecipato ad un incontro presso il castello di quest’ultimo con magistrati e membri della criminalità organizzata locale. Senza dar spazio a discussioni, il giudice Mannucci chiude la questione, ribadendo ancora una volta l’impossibilità di approfondire nuove responsabilità oltre a quella di Schirripa. Resta così nuovamente irrisolta la richiesta di verità dietro all’omicidio di Bruno Caccia.
Appuntamento al 23 novembre alle ore 9.30 per la prossima udienza, anch’essa di fondamentale rilevanza in quanto vedrà chiamato al banco dei testimoni Placido Barresi, esponente di spicco della ‘ndrangheta piemontese.