Dopo più di un anno dalla prima udienza il processo di primo grado arriva a conclusione
Milano, 17 luglio. Ergastolo. Si conclude così il primo grado di questo singolare processo a carico di Rocco Schirripa, sessantenne panettiere calabrese, ora ufficialmente riconosciuto come l’esecutore dell’omicidio del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia, avvenuto il 26 settembre 1983.
La sentenza è stata pronunciata alle 17.10 in un’aula particolarmente affollata della Corte d’Assise di Milano. La tensione che precede l’ingresso della Corte è palpabile e la si coglie negli occhi attenti dei tanti giovani presenti. Entra il giudice Mannucci, seguito dai giudici popolari e dal giudice a latere. La sentenza non lascia spazio a interpretazioni: ergastolo e condanna ad un risarcimento danni ai familiari di oltre un milione di euro. Condanna pesantissima, forse attesa da tutti ma che lascia tanti dubbi sulla completezza della ricostruzione delle responsabilità di quella notte del 1983. Lo spiraglio che lascia speranza per una verità più completa è sicuramente il rinvio degli atti alla procura, oggetto della medesima sentenza della Corte d’Assise. In questo modo la pubblica accusa, nell’eventuale processo di appello, non potrà solo limitarsi a raccogliere ulteriori prove riguardo alla responsabilità di Schirripa, al contrario dovrà allargare lo sguardo dell’indagine ad altre figure già emerse all’interno del processo. Speranza degli stessi familiari della vittima che si definiscono contenti della pronuncia specificamente riguardo a tale eventualità. La convinzione infatti è sempre la stessa, ovvero quella di aver scoperto una verità parziale rispetto alle dinamiche in cui venne deciso e si svolse l’attentato.
In mattinata l’imputato Rocco Schirripa aveva reso dichiarazioni alla Corte prima che si ritirasse in una lunga camera di consiglio. Si è rivolto in un primo tempo ai familiari della vittima, sottolineando la propria ammirazione per il loro impegno nella lunga ricerca di giustizia e verità; ricerca che però, a suo parere, sta prendendo la strada sbagliata: “il colpevole dell’omicidio non è in quella cella”, indicando la gabbia da cui è uscito. Continua poi con una contestazione dei capi d’accusa: infondati e pretestuosi. Ritiene infatti che il pm Tatangelo non stia cercando il vero colpevole ma un capro espiatorio: “Mi condannano perché ho precedenti con la giustizia, sono calabrese di Gioiosa Jonica e sono compare di Domenico Belfiore, solo per questo!”. Conclude con un ringraziamento alla propria famiglia per il costante sostegno e con una dichiarazione del tutto inaspettata: “se sarò condannato inizierò uno sciopero della fame”.
La pronuncia è stata accolta in silenzio dall’imputato e, appena sciolta l’udienza, ha chiesto alcune spiegazioni al proprio legale. Inizia così un nuovo corso della vicenda relativa all’omicidio del dottor Caccia, che vedrà il suo proseguimento in un probabile giudizio di appello.