di Demetrio Villani

Dopo quasi 20 ore di requisitoria, il pm Marcello Tatangelo non ha dubbio: Schirripa è colpevole

Milano, 25 maggio. Le porte della Corte d’Assise si aprono per ospitare l’udienza che vede la richiesta di condanna da parte del pm. Sono ormai due udienze, infatti, che l’accusa, rappresentata dal pm Marcello Tatangelo, insiste con una ricostruzione minuziosa e approfondita volta a provare la responsabilità dell’imputato Rocco Schirripa. L’aula è semideserta. Entra la Corte.

Il pm prosegue il filo logico delle udienze precedenti e, una volta terminata la fase di narrazione storica, passa all’elencazione, anch’essa estremamente dettagliata, dei maggiori elementi di prova raccolti durante il processo. Sono tre i passaggi fondamentali su cui si basa la requisitoria di Tatangelo: le informazioni raccolte dalla collaborazione di Vincenzo Pavia, le intercettazioni tra Placido Barresi e Rocco Schirripa, ed infine la testimonianza del collaboratore di giustizia Domenico Agresta.

Non ci sono, infatti, sentenze definitive che provano la veridicità delle dichiarazioni del giovane boss ‘ndranghetista. Pertanto, il pm ritiene che la sua attendibilità sia comunque provata dall’appartenenza ad una famiglia di ‘ndrangheta molto potente e legata a famiglie di spicco della criminalità organizzata lombarda e piemontese: Sergi, Papalia, Belfiore. La vicinanza di questi gruppi criminali, provata dalle carte processuali, rende di rilevanza primaria il contenuto delle dichiarazioni di Agresta, il quale racconta che in una conversazione avuta in carcere con suo padre Saverio Agresta e un altro noto boss ‘ndranghetista Cosimo Crea, il padre avesse affermato in merito all’omicidio Caccia: “il Procuratore di Torino se lo sono fatti Schirripa e D’Onofrio”. Tale dichiarazione, insieme a quelle rilasciate da Vincenzo Pavia nelle collaborazioni del 1996, che riconoscono Schirripa come colpevole sulla base di una deduzione del collaboratore, rappresentano il nucleo centrale delle accuse addotte dal pm.

Altro capo d’accusa rilevante è rappresentato dalle intercettazioni telefoniche raccolte durante le indagini preliminari. “In alcuni frammenti decisivi, Schirripa e Barresi si tradiscono, commettendo uno dei pochissimi passi falsi compiuti in questi trent’anni”, così il pm Tatangelo introduce l’ultimo degli elementi che a suo parere “tolgono ogni ragionevole dubbio sulla responsabilità di Schirripa in questo omicidio”. Si tratta di due passaggi: il primo è costituito dalla richiesta di Barresi a Schirripa sul dove avessero (lui e non si sa chi altro) parcheggiato la macchina quella notte. Informazione che, secondo Tatangelo, poteva essere data soltanto da qualcuno estremamente coinvolto nell’esecuzione dell’omicidio. Il secondo passaggio ha a che fare con una frase “schiacciante” rivolta da Placido Barresi a Rocco Schirripa: “Rocco, ti sei fatto tranquillo trent’anni e te ne farai sereno altrettanti”. Passaggio, quest’ultimo, che chiude definitivamente le argomentazioni del pm.

Prima di procedere alla richiesta di condanna, Tatangelo si sofferma ulteriormente sul rapporto tra Placido Barresi e l’imputato Schirripa, provocando la reazione nervosa dello stesso imputato, che chiede la parola ma poi viene subito convinto dai suoi difensori a rimanere in silenzio.“Questi due insieme stanno e insieme cadono”, il pm apre la strada ad un duplice vincolo per la Corte: se condannerà Schirripa, dovrà riconoscere anche il reato di falsa testimonianza a Barresi. Così facendo, l’uomo chiave del panorama criminale piemontese degli anni ’80, si vedrebbe revocato il beneficio della semilibertà, tornando a scontare in carcere l’ergastolo.

“Per le ragioni sopra esposte, chiedo la condanna all’ergastolo dell’imputato Rocco Schirripa”, conclude Tatangelo la sua lunga e appassionata requisitoria.

E’ il momento delle parti civili. Gli avvocati rappresentanti il Consiglio dei Ministri, la Regione Piemonte e la Città di Torino prendono parola, allineandosi in gran parte con la richiesta di condanna avanzata dal pm.

La voce fuori dal coro è rappresentata da Fabio Repici, avvocato dei familiari del Procuratore Caccia. Quest’ultimo comincia il proprio intervento poco prima della fine dell’udienza, lasciando intendere la sua assoluta insoddisfazione nei confronti delle modalità con cui si è svolto questo processo: “Questo processo è un caso di damnatio memoriae: la figura del Dott. Caccia è completamente sparita. Ditemi voi se è possibile che le uniche informazioni che abbiamo sul Procuratore provengano dalle dichiarazioni di mafiosi”. Tuttavia, il giudice Mannucci rimanda l’intervento di Repici e chiude l’udienza.

Prossima udienza in programma: martedì 6 giugno alle ore 9.30.

 

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