di Alessandra Venezia e Demetrio Villani
Sesta e settima udienza: in attesa della pronuncia della Cassazione sull’istanza di ricusazione dei giudici togati, in aula gli ultimi testimoni richiesti dal pm Tatangelo.
Il 15 e il 17 marzo hanno avuto luogo presso la Corte d’assise di Milano le ultime due udienze con oggetto le testimonianze richieste dal pm Marcello Tatangelo. Dalla prossima udienza – che sarà il 29 marzo alle 9.30 – si procederà all’esame dei testimoni richiesti dalla parte civile difesa dall’avv. Fabio Repici (unico escluso dalla Corte l’ispettore giudiziario Cristiano).
La prima parte dell’udienza del 15 marzo vede protagonista il collaboratore di giustizia Vincenzo Pavia, già sentito nel precedente processo. Pavia si mostra molto meno collaborativo rispetto alla prima deposizione, limitandosi a rimandare il pm e le parti a ciò che risultava dal verbale di un suo interrogatorio del 1996, infatti dice: “Quello che so è spiegato tutto in quelle pagine, perché mi fate le stesse domande?”. L’unica nota rilevante risulta essere la serie di domande della difesa di Schirripa, l’avv. Anetrini, mirate forse ad agitare Pavia e tentare di incalzarlo sui delitti da lui confessati nel corso di questi anni di collaborazione con la giustizia: “Ha confessato tutti i delitti che ha commesso? Ne è sicuro di non c’entrare niente con l’omicidio del procuratore Caccia?”, domande che mettono il collaboratore in difficoltà: “Ho confessato tutto quello che ricordavo…”.
La seconda parte dell’udienza di mercoledì 15 e l’intera udienza di venerdì 17 hanno come protagonisti diversi membri del clan siciliano dei catanesi, un secondo gruppo criminale operante a Torino negli anni ’80. Nessuno di loro è fisicamente presente in aula, l’interrogatorio delle parti si svolge in videoconferenza da località riservate. Il primo ad essere chiamato è Vincenzo Tornatore, l’unico che si rifiuta di collaborare, nonostante il giudice gli faccia più volte presente che in veste di testimone non ha il diritto di non rispondere alle domande, se non vuole affrontare un processo per reticenza. Tornatore afferma: “Non intendo rispondere alle domande, meglio un processo per reticenza piuttosto che mettere in pericolo i miei familiari. I miei figli hanno solo me”. Poiché nel dicembre 2016 il teste si era invece dimostrato collaborativo nel corso delle indagini della squadra mobile di Torino, l’avvocato Repici ritiene possano essersi verificate minacce a suo carico, ma la testimonianza viene comunque conclusa.
È poi il turno di Salvatore Parisi, Giuseppe Muzio (assente), Francesco Miano, Roberto Miano, Antonino Saia e Carmelo Giuffrida, che, a differenza di Tornatore, si dimostrano tutti collaborativi e disponibili. L’interrogatorio di ciascuno procede sempre nello stesso modo: stesse domande e, nella maggior parte dei casi, stesse risposte. Il pm si concentra sul tipo di rapporto presente in quegli anni fra calabresi e catanesi, rapporto che, dalle risposte dei testimoni, risulta essere di autonomia da una parte e di collaborazione dall’altra: “Eravamo gruppi autonomi ma ogni tanto ci scambiavamo favori, anche omicidi”. Rispetto ai componenti del clan dei calabresi, i testimoni dichiarano di conoscere Domenico Belfiore, Mario Ursini, Placido Barresi, Vincenzo Pavia. Nessuno di loro invece sembra conoscere l’imputato, Rocco Schirripa. Sempre in risposta alle domande del pm emerge che i catanesi, oltre ad aver dato la loro autorizzazione, offrirono ai calabresi la propria disponibilità ad aiutarli nell’omicidio del procuratore Caccia, ma che i calabresi la rifiutarono in quanto “si trattava di una cosa personale e dovevano occuparsene loro”. Secondo Parisi alcuni dei catanesi chiesero un “bloccaggio per l’omicidio” e cioè di rimandarlo a giugno, così che dopo la fine della scuola loro potessero andare in vacanza lontano da Torino, senza rischiare coinvolgimenti.
La linea guida dell’avv. Repici, invece, è volta a ricostruire i sottogruppi e le gerarchie delle due organizzazioni criminali. Dalle risposte dei testimoni si evince che il boss dei calabresi fosse Domenico Belfiore, subito seguito da Mario Ursini e poi da tutti gli altri. Per quanto riguarda i catanesi si parla di una spaccatura: da una parte i due fratelli Miano e dall’altra Giuffrida, Finocchiaro, Saia. Vengono poi fatti i nomi di altri protagonisti della realtà criminale dell’epoca e anche di esponenti delle autorità torinesi, nel tentativo di risalire alle cause e alle persone coinvolte, direttamente o indirettamente, nell’omicidio di Bruno Caccia. Da parte dei familiari del magistrato emerge dunque ancora la volontà di fare luce sui rapporti fra mafia e magistratura, con un interesse particolare per Gianfranco Gonella e i frequentatori del suo bar, situato esattamente di fronte al Palazzo di Giustizia di Torino.
Infine l’avv. Anetrini torna ancora una volta sulla causa dell’omicidio del magistrato e la risposta fornita dai testimoni è sempre la stessa: “Belfiore diceva che il giudice Caccia non si faceva sfuggire niente, faceva sempre indagini, insomma rompeva le scatole”. Inoltre la difesa si dimostra particolarmente interessata alla possibilità che gli esecutori materiali provenissero da fuori Torino. Francesco Miano infatti, in una deposizione del 1986, aveva dichiarato che Belfiore gli comunicò proprio che gli esecutori non sarebbero stati riconoscibili in quanto “forestieri”. Attualmente però lo stesso Miano, così come gli altri testimoni, sembra non ricordarsi questo particolare.
Alla fine di queste due intense giornate di udienze lo scenario risulta sempre più ampio. Intanto si attende la pronuncia della Cassazione sull’istanza di recusazione dei giudici togati.