Processo Lea Garofalo, 30 marzo 2012. A metà pomeriggio la corte presieduta da Anna Introini si ritira in camera di consiglio per decidere delle condanne dei sei imputati nel processo Lea Garofalo, la lettura della sentenza è prevista tra le 19.30 e le 20.00. Di fronte all’aula si radunano i parenti che, racimolata l’ultima dose di speranza, chiacchierano con gli avvocati in cerca di conforto: «Se si sono presi così poche ore è perché già hanno deciso», teme qualcuno. All’avvicinarsi della scadenza, davanti alle porte della prima sezione penale della Corte d’Assise giungono numerosi rappresentanti della società civile. Una quindicina di ragazzi del neonato presidio milanese di Libera intitolato a Lea Garofalo, il sociologo e presidente onorario di Libera Nando dalla Chiesa e l’attore e consigliere regionale Giulio Cavalli. È a quest’ultimo che poco prima della lettura della sentenza vengono rivolte minacce da parte dei fratelli Carlo e Vito Cosco. Il primo, sfidando con lo sguardo l’esponente politico, afferma: «Questo ci scrive un libro» e il fratello Vito continua: «è un cornuto». Non sorprende l’atteggiamento intimidatorio degli imputati, una costante per tutto il processo: «Cosa scrivete a fare?!», «ancora che venite qui?!?» quasi a rimarcare che in quell’aula i padroni di casa fossero loro. La sentenza tarda ad arrivare, poco prima delle 21.00 il campanello annuncia il rientro in aula della Corte. Il pubblico, tra cui i numerosi parenti, riempie il piccolo spazio in fondo all’aula, delle panche sbarrano il cammino verso la gabbia degli imputati, tanta la polizia presente in aula.
Il presidente Anna Introini insieme alla giuria popolare fa l’ingresso in aula, la tensione è forte e unisce tutti, qualunque sia la personale ragione di ciascuno per essere lì. Il giudice comincia a leggere la formula di rito, l’aula non è mai stata così silenziosa. Procede, alza lo sguardo serio e dichiara: «Cosco Carlo, Cosco Giuseppe, Cosco Vito, Curcio Rosario, Venturino Carmine, Sabatino Massimo colpevoli dei reati a loro rispettivamente ascritti». A tutti e sei, la pena all’ergastolo. A Carlo e Vito Cosco, due anni di isolamento diurno, mentre agli altri solo uno. La corte, poi, «dichiara tutti gli imputati interdetti perpetuamente dai pubblici uffici e dalla potestà genitoriale». Infine elenca i risarcimenti a carico dei sei imputati, tra questi le spese processuali per la difesa di Denise, di Marisa Garofalo e Santina Miletta, rispettivamente sorella e madre di Lea, e del Comune di Milano, costituitosi parte civile nel processo. Risarcite come parti lese la madre e la sorella di Lea, ma il risarcimento più cospicuo spetta a Denise, per la quale l’avvocato Enza Rando non aveva richiesto una somma di denaro definita confidando nella valutazione della corte; 200 mila euro la somma accordata alla giovane ragazza.
Dal fondo dell’aula emozioni contrastanti. Chi tira un respiro di sollievo sorridendo e chi lascia scorrere le lacrime, mantenendo un dignitoso silenzio. Una donna ha un mancamento, altri si stringono l’un l’altro. Una signora anziana, il viso deformato dal dolore e due lacrime ferme lì, tra le rughe di un viso che non riesce a trovare pace. Tutto senza rumore, senza un lamento. Gli imputati immobili, forse sentono per la prima volta il peso delle loro azioni, impossibile saperlo. Alla fine della lettura della sentenza compare all’uscita dell’aula don Luigi Ciotti, fondatore e attuale presidente di Libera, il volto tirato, provato dai difficili momenti che hanno caratterizzato questa vicenda. Non c’era in aula, era al fianco di Denise, «una ragazza giovane – pare vorrebbe urlarlo, senza riuscirci – che ha rotto i cerchi mafiosi e che ha trovato la forza e il coraggio di rompere l’omertà». Continua, facendosi portavoce della giovane donna, «dover cercare la verità è stata la sua più grande ferita e il suo più grande dolore. Ha chiesto giustizia per sua mamma – poi ribadisce – glielo deve a sua mamma…e l’ha fatto per sua mamma». Per la madre Denise ha testimoniato contro i parenti paterni, ha messo a rischio la propria vita ed è entrata nel programma di protezione; sempre per la mamma ha perso quel che rimaneva della sua famiglia. E per Lei, per Denise, spetta un grande compito da parte della società civile, non sciogliere l’abbraccio con cui l’ha stretta in questi lunghi mesi di lotta. A Noi spetta di non lasciarle le mani, aiutandola a reggere la durezza del suo passato e a costruire per lei un futuro di giustizia, speranza e libertà.