processo lea garofalo

La difesa, i cui interventi si sono svolti giovedì 29 e venerdì 30 marzo, è compatta. Tutte evidenziano la carenza di prove, prima fra tutte che sia effettivamente avvenuta la morte di Lea. A loro dire, si è creata una stratificazione di causali secondo cui se “Lea non è in vita, è scomparsa, è morta”. Ma pare manchino troppi indizi per poterlo dire con certezza e Lea parlava da tempo di voler andare in Australia per rifarsi una vita. Questo permette loro di seguire la strada dell’allontanamento spontaneo di Lea, rafforzato dal pensiero di Denise di continuare gli studi a Milano. A sostegno della tesi, l’assenza della pistola che sarebbe stata utilizzata per sparare alla donna e i dati forniti dall’analisi dei tabulati telefonici. Il pm, poi, avrebbe appositamente aggiunto l’interrogatorio di Salvatore Sorrentino nella ricostruzione dei fatti in quanto, se non ci fosse stato, sarebbe venuto a mancare il movente dell’omicidio. La loro richiesta è l’assoluzione degli imputati in quanto il fatto non sussiste e, in subordinazione, per non aver commesso il fatto.

La prima a prendere parola nella mattinata di giovedì 29 marzo è l’avvocato Maira Cacucci, difensore di Giuseppe Cosco, colui che secondo l’accusa avrebbe interrogato, torturato e infine ucciso Lea Garofalo. La prima esortazione del legale è di chiamare l’imputato per nome e non per cognome, troppe volte è stato confuso coi suoi fratelli dando vita a non pochi fraintendimenti, «i Cosco hanno un nome di battesimo, il suo cognome è per lui un macigno, la sua unica colpa». Inoltre, l’uomo non ha buoni rapporti con gli altri fratelli, intercettato dopo l’arresto avrebbe affermato: «in Calabria coi miei fratelli manco ci andavo, manco mi dicevano “ciao”. Io mi trovo in casino senza aver fatto niente». Prima di spiegare gli elementi che proverebbero l’innocenza del suo assistito, l’avvocato ha fatto un appello alla corte: «Vi chiedo di usare il cuore e giudicare Giuseppe Cosco come se foste voi nella stessa situazione. Ve lo chiedo col cuore in mano». L’ipotesi ventilata dal legale è che Lea Garofalo sia partita, la donna avrebbe infatti espresso più volte il desiderio di abbandonare il paese per cambiare vita, nel 2009 la figlia Denise sarebbe diventata maggiorenne pertanto poteva essere il momento giusto per mettere in atto il suo piano. A corroborare l’ipotesi, precisa l’avvocato, è la totale assenza di prove e certezze che Lea sia stata uccisa: «non esiste un cadavere né un luogo certo, né un movente; esiste un movente supposto, un’ipotesi astratta – poi afferma in modo provocatorio – con la fantasia e le supposizioni tutto è possibile». L’ipotetico movente attribuito a Giuseppe Cosco sarebbe legato alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Salvatore Sorrentino, in base alle quali l’uomo avrebbe avuto interesse ad ammazzare Lea perché testimone nel 1995 di un omicidio che lo vedeva direttamente coinvolto. Tuttavia l’avvocato precisa che il collaboratore in questione avrebbe più volte erroneamente riferito di Giuseppe Cosco come del convivente di Lea, confondendo sistematicamente il suo nome con quello di Carlo Cosco, sarebbe dunque poco attendibile la sua testimonianza. A scagionare definitivamente Giuseppe Cosco, riferisce l’avvocato, restano i tabulati telefonici; in base ad essi l’imputato avrebbe avuto solo quattro minuti per poter interrogare, torturare e uccidere Lea nel magazzino di San Fruttuoso. Senza contare che il cellulare dell’uomo, nella notte tra il 24 e il 25 novembre 2009, non avrebbe mai agganciato la cella telefonica del magazzino; dunque, ha affermato con convinzione l’avvocato indicando il suo assistito, se «in base al movente lui aveva interesse a interrogare Lea, non avendo avuto il tempo di farlo il movente viene meno e con esso la responsabilità penale del soggetto qui di fianco a me». «Questo processo ha subito troppa esposizione mediatica e spesso, quando ciò avviene possono esserci degli errori di valutazione, nessuno ha prospettato l’ipotesi che ci sia anche un solo innocente in questo processo».

Capelli corti e neri, occhiali, è il momento dell’avvocato Francesco Garofalo, difensore di Vito Cosco e Carmine Venturino. Esordisce attaccando le parole del pm Tatangelo che, durante la requisitoria di due giorni prima, definivano i sei imputati dei vigliacchi. «È una parola pesante, loro non lo sono. Hanno cuore e dignità, attendono giustizia». E richiama la corte a giudicare su elementi obiettivi, senza considerare «tutte le onorificenze date a questa donna». Ripercorre la vita di Lea perché, si sa, dopo arresti e morti intorno a lei, voleva farsi un’altra vita, andare in Australia, «ma – aggiunge lui – non con Denise, non l’ha mai detto». «E – continua – quale occasione migliore di lasciare la figlia al padre nel momento in cui lei stessa lo voleva per non stare più a Pagliarelle». Richiama l’articolo 192 c.p. secondo cui «L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti» e si collega a Sorrentino e suo fratello. Il primo «è un teste falso, una persona detenuta» che avrà raccontato le poche informazioni apprese dal compagno di cella Sabatino al secondo che, a sua volta, avrà cercato su internet fornendo altri elementi per costruire la storia. «Le dichiarazioni di Sorrentino vengono fuori con l’ordinanza di custodia cautelare». Sabatino si alza, guarda fisso l’avvocato e annuisce. «Il processo – la voce forte e decisa – secondo questa difesa va diviso», secondo i fatti di Milano e di prima. Considera certe dichiarazioni rilasciate da Denise riguardo il 24 novembre un po’ sfumate, imprecise, disorientate, perché, «forse, è il momento in cui capisce che la madre l’ha abbandonata». Vito la mattina del 5 maggio ha un alibi, tre ore di straordinario sul lavoro; Carmine, invece, era la persona con cui Denise aveva trovato l’amore, per otto mesi, e non una figura messa al suo seguito da Carlo.

 È l’arringa difensiva dell’avvocato Daniele Sussman Steinberg, difensore di Carlo Cosco, a mettere il sigillo sulla interminabile giornata di giovedì, conclusasi poco prima delle 20. Posiziona sul primo banco i suoi documenti, lo occupa interamente. «Stiamo seguendo – esordisce – un processo drammatico, micidiale e crudele. Come ognuno. Figuriamoci con questa accusa». Inizia a ricostruire la vicenda di quello che è «un odio strisciante che affonda le sue radici nel 1996» e si conclude con «un omicidio orgiastico – e chiede scusa per la forte terminologia –, il 24 novembre del 2009».Quello che viene presentato in questo iter processuale è un «movente che si stratifica nel tempo: disonore di uomo ‘ndranghetista, odio di un uomo abbandonato, timore del criminale». Carlo si sposta nell’angolo più vicino al banco e guarda serio. Si ripete il dogma del processo “collaboratrice sciolta nell’acido dalla ‘ndrangheta”, nonostante Carlo Cosco non sia mafioso e non abbia usato «sua figlia come un verme attaccato all’amo». Dalla sentenza dell’operazione Storia Infinita, il cui mandato di cattura era stato emesso dall’attuale presidente Anna Introini, era passato ingiudicato da 416-bis. E, «i fratelli Cosco non sono mai – linearmente, una volta, e poi scandendo ogni lettera, con maggior vigore – stati nominati da un collaboratore di giustizia», «la ‘ndrangheta non è un condimento come il sale». Sostiene come fino al maggio 2009 Carlo sia completamente indifferente a Lea e lei non avesse paura di lui, non ne avrebbe motivo. L’unico sarebbe potuto essere l’episodio della macchina bruciata da Massimo Cosco – il quarto fratello – a Bergamo nel 1999, ma non esiste. Ha verificato. É la donna a riferirlo a Denise e lei, condizionata, lo racconterà. Forse, era stato «creato per giustificare una scelta drammatica, di non farle vedere il padre». Entra nel suo argomento-chiave: il motivo della sua entrata nel programma di protezione. Per paura di suo fratello Floriano, molto arrabbiato per la scelta di collaborare, ma lui nel 2005 muore. Quindi, dice di non capire. Si è trasferita, è entrata nel programma di protezione e, come se si stesse rivolgendo a Lea, «sei a Bergamo, ti sei fatta una vita. Hai un lavoro, degli amici, un compagno. Perché fai così?». Era tutto perfetto, «non era una sfigata», non capisco la solitudine di cui si parla. Voleva tenere la figlia lontana dall’ex compagno, avrebbe affermato che se ne sarebbe andata se lei fosse stata con suo padre. Così sovrappone la sua tesi a quella dell’avvocato precedente, «allora, lei può essersene andata in maniera spontanea». E riporta qualche statistica sulle scomparse per avvalorare la sua tesi. Prosegue. Contesta le dichiarazioni di Cortese, evidenzia il contrasto tra i ricordi di Marisa e Denise riguardo la richiesta di autorizzazione fatta da Lea per tornare a Petilia Policastro, accusa Sorrentino di lavorarsi «le persone per farsi dire le cose».

 Ancora con sciarpa e occhiali da sole, fa il suo ingresso in aula l’avvocato Salvatore Staiano, difensore di Rosario Curcio: colui che avrebbe partecipato prima al sequestro di Lea e che poi, insieme ai complici Carmine Venturino e Sergio Cosco, avrebbe provveduto a distruggerne il cadavere. Estratti i documenti processuali e messa la toga, l’avvocato inizia la sua arringa precisando che «si sarebbe preso non più di quaranta minuti» per esprimere le ragioni a discolpa del suo assistito. Infatti, sostiene l’avvocato, la comparsa di Rosario Curcio nei reati che gli sono imputati sarebbe solo “suppositoria” perché nelle prime dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Salvatore Sorrentino il suo nome sarebbe assente. Le dichiarazioni successive dell’uomo, il cui nome sarebbe spesso confuso dall’avvocato con quello di Sabatino, risultano poco credibili perché egli sarebbe un “bugiardo” e le sue testimonianze colme di contraddizioni. Richiamandosi all’art.192 esorta la corte a rivalutare l’attendibilità di tale teste. Continua poi affermando che nel processo Lea Garofalo siano troppe le verità accolte per inferenza e che «un’inferenza non può essere usata per argomentare una sentenza. Non è consentito dal diritto». Altre parole di amara critica per le indagini condotte dalla Procura di Milano: «nessuno può essere condannato per una prova indiziaria – il quando, il come e il dove sono coordinate non ancora individuate per quest’omicidio». Continua, «se la premessa è errata, posso dimostrare qualsiasi argomento. Perché possa capire la responsabilità di Curcio devo dare per vero che l’abbia ammazzata ma non si sa dove ne se ciò sia successo, non ci sono prove». E se Lea fosse morta d’infarto? Queste le ultime parole dell’avvocato Staiano prima di girarsi verso la gabbia dell’aula della Corte d’Assise, stringere le mani ai sei imputati e abbandonare l’aula.

Con aria seria e composta si accinge a fare la propria arringa l’avvocato Fabio Massimo Guaitoli, difensore di Giuseppe Cosco. Per tre ore il legale ha occupato il banco dell’aula della sezione penale di Milano con maestria da giurista ma non senza verve di attore. Attore comico, quando riferendosi ai traffici di droga in cui erano coinvolti i Cosco dice «macché Colombia! A questi gli dici Colombia e capiscono “colomba”!», ma anche attore cinico e di basso humour quando afferma riferendosi a Lea «mi auguro che ritorni dall’Australia e ci venga a trovare». Taglienti i suoi commenti e dure le sue posizioni, molto dure. Nessuno sconto per il collaboratore Salvatore Sorrentino, definito un «professorino della calunnia e della falsa testimonianza» che avrebbe usato Lea come “merce di basso scambio” per ottenere quello che fino a quel momento non aveva ottenuto in termini di sconti di pena. Continua impietosamente, «è un losco figuro mercenario a cui non si può dare credito. Per sua stessa ammissione si definisce “tossicodipendente” e non “semplice consumatore”. Salvatore Sorrentino offende la nostra intelligenza, smettiamo di dargli credibilità, lui è un criminale vero che gioca sulla pelle degli altri». La provocazione successiva spetta al pm, «se non c’è la prova della morte cagionata, non esiste la prova di reato. Ci deve essere la prova che Lea sia morta. Un processo non si fa su tesi ma su fatti, devo solo attendere che il mio contraddittore pubblico provi i fatti!». Continua poi rivolgendo un monito ai giudici e alla giuria popolare: «da lunedì avrete il coraggio di stare a casa dopo aver giudicato senza avere una prova? Ve la sentirete di avere anche solo un dubbio, ve la sentirete di portare questo fardello? Io non me la sentirei». Nel parere dell’avvocato sarebbero troppi i tasselli mancanti nella ricostruzione della vicenda: a partire dal furgone su cui sarebbe stata trasportata Lea, fino ad arrivare alla pistola con cui l’avrebbero uccisa. «Il pm non ci ha parlato né del furgone, né della pistola, abilissimo, ma all’avvocato Guaitoli non sfugge nulla dopo tanti anni!». E poi ancora alla corte: «In novanta giorni dovrete dimostrare la sentenza. Dimostratelo senza la pistola!», poi commenta ironicamente, «ma quando le hanno sparato? Alla venticinquesima ora del giorno le hanno sparato!». Già in fase istruttoria, durante la deposizione di Denise, il legale era stato rimproverato dal pm di non avere un minimo di sensibilità nei riguardi della ragazza, non è stato da meno neanche questa volta affermando che Denise «ha la mentalità dei Garofalo», riferendosi al trascorso mafioso della famiglia. Poi continua, «si è impantanata perché non ha capito neanche lei perché sua mamma abbia cercato il padre» a fine novembre del 2009. Da qui la risposta di Denise da cui il legale avrebbe intuito la mentalità della ragazza: «se qualcuno ti vuole uccidere, o lasci che lo faccia o fai come ti fosse amico». L’ipotesi ventilata dal legale è che Lea sia fuggita, spiega, «dal 1974 al 2010 in Italia sarebbero 82.651 le persone scomparse, il 60% di queste sono state ritrovate, ci auguriamo che Lea faccia parte di questo 60%». Conclude la sua arringa aggiungendo che questo processo neanche doveva esistere.

Gli interventi della difesa si concludono venerdì pomeriggio con quello dell’avvocato Pietro Pitari, anche lui difensore di Carmine Venturino e Sergio Cosco. Sostiene come il processo sia «influenzato da molti elementi endoprocessuali», «viziato in auge» in quanto «soltanto sui fatti deve essere basata una sentenza». Non su dati freddi che, presi fuori dal contesto, non avrebbero alcun significato. Ci sono molte zone d’ombra nelle analisi e nelle investigazioni, mancano molti indizi e si è creata una stratificazione di causali secondo cui se «Lea non è in vita, è scomparsa, è morta. Ma quale vita? Quale abbiamo controllato?». Crede non sia normale che la richiesta di sparizione venga raccolta dopo 24 ore, «ci si è fatti sopraffare dalla prassi». Quando, se solo fossero stati fatti accertamenti il 24 sera e il 25, si sarebbero ottenuti più elementi. Anche verificando l’identità di Alessandra de Rossi, quella che Lea Garofalo indossava nel periodo in cui era nel programma di protezione. Si aggiunge anche lui all’analisi delle testimonianze di Sorrentino, sostenendo che anche se «ha detto cose vere non significa che abbia detto tutto il vero». Rimarca quanto il sopralluogo sia determinante per un processo e riporta i dati emersi quando fu effettuato. I cani andarono verso una fossa biologica ma al suo interno non fu trovato materiale biologico, né ematico, né delle tracce di acido. Conclude, da laico predicante che si definisce, con un pezzo del Padre Nostro, «non ci indurre in tentazione». È rivolto alla Corte, le chiede di riflettere, di non farsi indurre in tentazione dalla tanta voglia «di fare giustizia su un brutto caso come questo». Conclude con un dettaglio, gli orari della chiamata non risposta di Carlo a Carmine e la successiva del secondo al primo. Passa un quarto d’ora, «se ci fosse stato un progetto, sarebbe stato in attesa».

Viene il momento della loro ultima difesa, le dichiarazioni spontanee. A rilasciarle solo Carlo Cosco e Carmine Venturino.

Il primo a presentarsi al banco per rendere una dichiarazione spontanea è Carlo Cosco, ex convivente di Lea. Questa la sua ultima possibilità per presentare elementi in sua difesa e convincere la corte della sua estraneità ai fatti. «Mi prendo la responsabilità dei fatti di Campobasso» afferma l’uomo, su questo episodio però il pm avrebbe alzato un “polverone”, l’uomo afferma infatti di aver mandato Sabatino a casa della ex, come egli è solito chiamarla, solamente per “picchiarla” e per “impaurirla”, non per ammazzarla. L’imputato aggiunge inoltre di non aver più visto Sabatino dopo il 5 maggio 2009, dunque quello creato dal pm sarebbe «u’ casino, u’ macello, u’ polverone». Non ci sarebbe stato nessun omicidio, nessun sequestro. L’uomo, mettendo mano alla tasca estrae poi un foglietto, «ho da dire un’altra cosa. Il pm ci ha definiti vigliacchi. Io ho la terza media, il pm è un dottore, è laureato, non lo so. Ha proprio ragione quando dice che sei uomini che sequestrano e uccidono una donna sono dei vigliacchi. Noi non lo siamo perché non l’abbiamo uccisa, non abbiamo avuto questa sciagurata idea». Infine Carlo Cosco ringrazia la corte, augura “una buona Pasqua anticipata” e ribadisce «per Campobasso mi prendo le mie responsabilità», dopodiché torna dietro le sbarre.

Carmine Venturino si siede, comincia a parlare, poche tracce dell’accento calabrese, per chiarire quanto emerso dalla requisitoria del pm. Non vuole venga messo in dubbio il suo rapporto con Denise, dice che non è mai stata costretta a rimanere giù, però «ci sono delle intercettazioni, dei messaggi tra me e Denise in cui ci parliamo io e Denise», lei mi diceva “io voglio restare lì per te”». Chiarisce poi il suo rapporto con Floreale; si conoscevano molto bene, ci sono delle intercettazioni dove «è palese che non parliamo di arance, ma di altre cose», parlavano di droga. E poi ha rilasciato delle dichiarazioni, «dove nega…tutto. Non ha negato di conoscermi perché ci facevamo delle telefonate… non so perché, boh». E il ritmo della voce aumenta parlando del momento che sta vivendo, del perché. «E poi, cioè, non so come mai sono stato coinvolto, mi trovo in una corte d’assise…ho fatto degli errori…la droga, ma non omicidio. Sequestro di persona, dissoluzione di cadavere. L’unica spiegazione che mi posso dare…che in questo processo serviva la testimonianza di Denise Cosco». E dice che non è vero che era scappata per non stare a Pagliarelle, «io sapevo che andava a Torino da una sua amica, da un’amica di sua mamma, era un avvocato…l’avvocatessa Rando». Con qualche pausa, conclude, «Va beh, spero che questa Corte faccia una scelta coraggiosa. Ci affidiamo nelle vostre mani, nelle mani dei giudici popolari. Grazie». E viene riaccompagnato in cella, lo sguardo basso, una dito passa sotto l’occhio sinistro.

 

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