di Giulia Zuddas

Alla vigilia del 25esimo anniversario della strage di Capaci si chiude il secondo ciclo delle lezioni di antimafia

La vigilia di un evento importante porta con sé un alone di mistero, un’aura quasi magica che raccoglie le attese, le aspettative, le proiezioni della mattina che deve arrivare. Un po’ come la vigilia del 24 dicembre, per molti bambini ancora più bella del giorno stesso di Natale.

Per gli anniversari delle stragi non è proprio così. La vigilia di una strage porta con sé il silenzio, il dolore e il raccoglimento che il giorno dopo devono lasciar spazio alla forza, al coraggio e alla voglia di andare avanti. La sera del 22 maggio Radio Popolare ha fatto proprio questo: ha abbassato le luci in sala e ha concluso il secondo ciclo delle lezioni di antimafia “Sconfiggere la mafia. Chiunque può fare qualcosa”, ideato dalla Scuola di Formazione “Antonino Caponnetto”, con un intervento di Giuseppe Teri intitolato “Cosa hanno veramente detto Falcone e Borsellino”.

 Quest’anno ricorre il venticinquesimo anniversario della strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Rocco DicilloAntonio Montinaro e Vito Schifani. E quella che ha offerto lunedì scorso Giuseppe Teri, membro della Scuola di Formazione Antonino Caponnetto e di Libera, non è stata una semplice ricostruzione storica per ripercorrere la vita di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si è soffermato su qualcosa che spesso, nella narrazione, passa in secondo piano, ossia ciò che i due giudici, morti a pochi mesi di distanza nel 1992, hanno realmente detto. Appunti, pensieri, riflessioni, confidenze.

“C’è un pensiero”, ha ricordato Teri all’inizio del suo racconto, “che raccoglie l’eredità di Falcone. Sono le parole di Antonio Montinaro, suo agente di scorta morto a Capaci, che quella mattina disse alla moglie di essersi messo l’abito più bello che aveva, quello delle occasioni importanti, perché proteggere il giudice Falcone significava per lui proteggere lo Stato in cui credeva”. È un gesto che riassume proprio quell’idea di Stato che Falcone e Borsellino ci hanno voluto consegnare, fondato sull’eguaglianza, su un sistema di leggi in difesa del bene comune e del benessere collettivo.

“Lo Stato degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta è uno Stato contaminato dalla criminalità organizzata, non credibile nella lotta contro la mafia. Perché era stato esso stesso a far proliferare quel fenomeno”, continua Giuseppe Teri. “Ne La mafia non è invincibile Falcone descriveva la situazione del lavoro dentro al tribunale, spiegando il fatto che con mezzi adeguati la mafia non è affatto invincibile. E spiegava che, oltre all’indifferenza, sentiva attorno a sé un clima quasi ostile, di diffidenza, e che la concezione che guidava le indagini si doveva basare sull’idea che ogni evento non doveva essere trattato come un fatto a sé. I giudici non comunicavano, erano quasi gelosi dei propri casi. Finivano tutti per assoluzione per insufficienza di prove. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello venivano addirittura accusati di violare la terzietà del giudice”.

 

Quello che hanno a lungo portato avanti questi giudici è un lavoro collettivo; avevano capito che bisognava modificare la giurisprudenza per combattere adeguatamente la mafia. Non bastava la mera repressione del fenomeno criminale. Occorreva che venissero plasmate le coscienze, informando le persone ed educandole alla legalità. “Avevano capito che c’era bisogno”. ha proseguito nella sua riflessione Teri, “di leggi nuove sui collaboratori di giustizia. Hanno costruito un metodo che cercava e approfondiva gli elementi di legame tra singoli fatti. Si sono dotati di strumenti per farlo, per fare il loro dovere ma in prospettiva totalmente diversa dagli altri giudici”.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, cresciuti entrambi nel quartiere palermitano La Kalsa assieme a diversi ragazzini che da adulti sono diventati membri della mafia, si sono sempre chiesti come fosse possibile crescere assieme e poi prendere strade così tanto diverse. Ciò che muoveva il loro lavoro era la consapevolezza che la repressione giudiziaria era solo uno degli step da percorrere per cambiare le cose. Serviva un cambiamento di mentalità. E serviva che lo Stato fosse credibile agli occhi delle persone, perché altrimenti si sarebbe trattato solamente di una battaglia persa.

La mafia si evolve continuamente, si adatta, cammina al passo con i tempi. E la presa di coscienza collettiva che può arginarla e combatterla va alimentata ogni giorno. Con gli incontri nelle scuole, con una informazione trasparente e critica, con una pubblica amministrazione efficace, con uno Stato che sia credibile agli occhi delle persone. Lo ripeteva, Giovanni Falcone, e ci credeva: la mafia, in fondo, non è invincibile. Gli onesti sono molto di più.

 

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