Ancora due mesi di tempo. Sessanta giorni in più avranno a disposizione i pm che stanno indagando l’ex Presidente del Senato Renato Schifani, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa la decisione del gip Piergiorgio Morosini che già il 26 luglio aveva negato l’archiviazione richiesta dalla Procura di Palermo, chiedendo di esaminare con cura le amicizie pericolose del Senatore con i mafiosi di Brancaccio e il clan Mandalà di Villabate. Due mesi necessari a concludere al meglio le indagini, ascoltando le parole dei sette collaboratori di giustizia indicati dal gip, quali Nino Giuffrè (capo mandamento di Caccamo), Mario Cusimano, Giovanni Drago e Tullio Cannella (entrambi pentiti di Brancaccio), Salvatore Lanzalaco, Salvatore “Uccio” Barbagallo e Innocenzo Lo Sicco, collaboratore di giustizia e nipote del costruttore Pietro Lo Sicco.
E Renato Schifani? Cosa c’entra con Pietro Lo Sicco? Semplicemente, negli anni Novanta, il futuro Presidente del Senato era il suo avvocato d’affari. E questa è una certezza. Lo dimostra la firma di entrambi ad un verbale del 1993, pubblicato da Fabrizio Gatti su L’Espresso il 30 settembre di quest’anno. Sembrerebbe un rapporto di lavoro del tutto naturale il loro. Senonché il costruttore Lo Sicco fosse, in quegli anni, l’imprenditore di fiducia di spietati boss mafiosi, come Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. Un ex benzinaio di Palermo trasformatosi, in poco tempo, in palazzinaro al servizio di membri di Cosa Nostra, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, per corruzione di un assessore e concorso in truffa ai danni di un Comune. La loro collaborazione prosegue almeno fino all’autunno 1996, come attesta un ricorso di Schifani in favore di Lo Sicco al Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia. In quell’anno l’avvocato d’affari era appena stato eletto Senatore tra le file di Forza Italia, nel collegio siciliano di Corleone.
1996, appunto. In provincia di Agrigento veniva eletto all’Assemblea regionale siciliana, con novemila preferenze, il neo ministro degli Interni Angelino Alfano. Qualche mese dopo, in estate, lo stesso politico agrigentino si recò ad un matrimonio di una giovane coppia. Il padre della sposa si chiamava Croce Napoli, deceduto nel 2001, e da tutti considerato il boss del paese, Palma di Montechiaro. Il quotidiano La Repubblica sollevò il caso nel 2002, chiedendo spiegazioni all’allora deputato Alfano. Quest’ultimo negò la sua presenza al matrimonio fino a quando video e fotografie non gli fecero tornare la memoria, ricordandosi di esserci stato ma su invito dello sposo, non conoscendo la famiglia della sposa. Tuttavia, la convivialità, gli abbracci e la padronanza della situazione che appaiono nel video sembrano dimostrare il contrario.
Ora, può un politico dell’Assemblea regionale non conoscere il boss del paese? Così come, può l’avvocato d’affari e politico forzista di prim’ordine non sapere che il suo assistito gestisce beni e immobili di uomini importanti di Cosa Nostra? E in quali circostanze Alfano e Schifani hanno conosciuto il capomafia Croce Napoli e il costruttore Pietro Lo Sicco? Sarebbe gradito avere delle risposte a questi quesiti, in virtù del fatto che sia Angelino Alfano che Renato Schifani sono tuttora all’interno del panorama politico nazionale con ruoli di spicco. Il primo è attualmente il Ministro degli Interni e vice Presidente del Consiglio dei Ministri; il secondo è stato per cinque anni la seconda carica dello Stato, occupando lo scranno di Palazzo Madama, e ora è appena stato nominato presidente del Nuovo Centrodestra dopo la scissione dal Popolo della Libertà.
Risposte che dovrebbero arrivare indipendentemente dalla verità giudiziaria che scaturirà dal processo a carico del Senatore Schifani. In un paese democratico è normale che i cittadini possano nutrire il dubbio che uomini di governo e alte cariche istituzionali abbiano avuto in passato relazioni con boss mafiosi o personaggi legati direttamente alla criminalità organizzata? No, non lo è.
Infine, riflettiamo per un momento sulla vicenda recente che chiama in causa il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di potere fare se davvero ne avessi da riferire”, così scrive Napolitano nella lettera alla Corte d’Assise di Palermo che celebra il processo sulla trattativa Stato-mafia. La procura aveva richiesto la sua testimonianza sulla base delle confidenze fattegli dal suo ex consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, deceduto nel 2012 dopo essere stato al centro di numerose polemiche inerenti una serie di intercettazioni telefoniche tra lui e Nicola Mancino, ex Ministro degli Interni. Il rifiuto di Napolitano non è sicuramente l’atteggiamento esemplare che ci si aspetta dal garante della Costituzione, capo del CSM e portatore di tutti i valori presenti in quella Carta redatta da uomini che si ribellarono ad una dittatura. “Finché una tessera di partito conterà più dello Stato, non riusciremo mai a battere la mafia”, diceva il Generale dalla Chiesa. Aveva ragione. Smascheriamo le collusioni, non fermiamoci mai alle apparenze. Denunciamo ciò che vediamo, ciò che sentiamo. Urliamo, gridiamo più forte se non ci sentono. La mafia la possiamo battere anche noi, facendo il nostro dovere. Sempre.