di Redazione
“Vorrei concludere il mio intervento con una citazione di Padre Pino Puglisi: se ognuno facesse qualcosa, se ognuno si mettesse in gioco, se ognuno rifiutasse di farsi spettatore di un mondo che sta morendo, tutto sarebbe diverso.” Un lunghissimo applauso accoglie queste parole pronunciate dal Procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, magistrato che per anni ha combattuto la mafia al di qua e al di là dello Stretto di Messina, a Palermo prima e a Reggio Calabria poi. L’occasione è una conferenza che si è tenuta lo scorso otto maggio all’Università Bocconi, e che ha visto come relatori, oltre che Pignatone, Michele Prestipino (procuratore aggiunto presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria), Ilda Boccassini (procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano) e Michele Polo (Prorettore per l’Organizzazione presso l’Università Bocconi). Lo scopo era quello di presentare un libro appena uscito per Laterza, “Il Contagio. Come la ‘ndrangheta ha infettato l’Italia”, a cura del giornalista Gaetano Savatteri (moderatore dell’incontro), in cui Pignatone e Prestipino riflettono sulla ‘ndrangheta partendo dalla loro esperienza a Reggio Calabria. Presenti fra il pubblico esponenti della magistratura e dell’antimafia milanese e non (lo stesso Pignatone nel suo intervento si è rivolto al Procuratore della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati, all’imprenditore siciliano Ivan Lo Bello e al professor Nando dalla Chiesa). Ma soprattutto c’erano tantissimi studenti: ed è proprio a loro a cui più volte i relatori si sono rivolti durante i loro interventi, sottolineando la centralità del ruolo delle nuove generazione nella lotta contro la mafia.
Idem sentire contro la zona grigia. I tre magistrati si caratterizzano, come ha detto Pignatone usando un’espressione di Ilda Boccassini, per un idem sentire: ed infatti i loro interventi si sono composti e annodati fra di loro finendo per tratteggiare un quadro unitario. “La battaglia contro la mafia si può vincere” ha detto Giuseppe Pignatone, e i tre magistrati sono concordi nel ritenere che si potrà raggiungere tale obiettivo solo intervenendo sulla vasta zona grigia di professionalità imprenditoriali, legali e tecniche che aleggia attorno alle organizzazioni di stampo mafioso. Una zona grigia caratterizzata da convergenze a volte anche inconsapevoli, come ha sottolineato Ilda Boccassini, scagliandosi contro un certo giornalismo che ha minimizzato gli arresti importanti degli ultimi anni, arrivando a definire Totò Riina un vecchietto “mangiatore di cicorie” e nulla più; affermazioni che, come ha sottolineato il magistrato milanese, suscitano ancora più indignazione in questi giorni in cui ci avviciniamo al ventesimo anniversario della Strage di Capaci. Una zona grigia caratterizzata da una serpeggiante omertà, ha continuato Ilda Boccassini, sottolineando come da un’attenta opera di monitoraggio compiuta dalla Procura di Milano risulti come spesso negli incendi e negli atti di danneggiamento compiuti in città e nell’hinterland non ci sia una parte lesa, non ci siano persone disposte a denunciare. Anche Michele Prestipino ha contribuito a tratteggiare la composizione di questa zona grigia, facendo in particolar modo riferimento alle intercettazioni ambientali raccolte presso l’abitazione di un’importante famiglia di ‘ndrangheta, i Pelle di San Luca. Alla porta del capofamiglia Giuseppe Pelle, ha raccontato Prestipino in modo icastico e vivace, andavano a bussare le più svariate classi sociali: dai politici che chiedono voti, agli imprenditori che domandano favori e protezioni, fino ai cittadini comuni che avanzano le richieste più disparate, a volte relative anche alla piccola quotidianità. Può sembrare strano, ha detto Prestipino, che uno dei più importanti boss della ‘ndrangheta si occupi di questioni a volte così ‘bagattellari’, ma in realtà è in questo modo che si accumula il vero potere della ‘ndrangheta, ossia attraverso il consenso sociale e il controllo capillare sul territorio.
Un marchingegno fatto di paura e convergenze. Ma gli uomini che restano nell’opacità della zona grigia lo fanno per paura? Ha domandato Gaetano Savatteri a Giuseppe Pignatone. Questi, facendo riferimento agli studi compiuti in materia da Rocco Sciarrone, ha affermato che in realtà non è solo per paura che si tace dinanzi alla mafia, ma è spesso per un vero e proprio calcolo di convenienza, frutto di una attenta analisi di costi e benefici. La mafia si congiunge con gli altri interessi e poteri che serpeggiano nella società al fine di creare, dice Pignatone citando le parole del pentito Nino Giuffrè, un vero e proprio marchingegno, che diviene pericoloso proprio in virtù di queste unioni e convergenze. Ecco dunque come la vera lotta da vincere oggi diventa quella contro tale modo di pensare e di operare; ed è una lotta, hanno sottolineato i tre magistrati, che deve provenire in prima battuta dalla società. La repressione giudiziaria non basta per rompere il marchingegno, la condanna, prima ancora che processuale, deve essere sociale. “Delegare la lotta alla mafia all’eroe di turno è un errore gravissimo. […] Ognuno deve fare la sua parte e decidere da che parte stare. Questo significa che ciascuno deve praticare la regola etica della propria professione e del proprio agire quotidiano”, scrivono Pignatone e Prestipino nel libro. A nessuno sono richiesti eroismi, dice ancora Pignatone; sarebbe sufficiente che ciascuno di noi si rifiutasse di stringere la mano non solo ai mafiosi, ma anche semplicemente a chi alla mafia è vicino. Nelle realtà corrose dalla criminalità organizzata non si può semplicemente attendere l’intervento dall’alto della magistratura: bisogna piuttosto intervenire dal basso, denunciare, agire, isolare socialmente chi è colluso, rifiutarsi appunto di stringere le mani, dimostrare che scegliere la mafia non paga. Solo in questo modo si possono rompere i fili di interessi e convergenze che la avviluppano al resto della società; solo in questo modo, spezzando il marchingegno, si può sottrarre alla mafia la sua pericolosità e la si può sconfiggere.