di Francesca Gatti

borsellino

Li guarda uno ad uno, negli occhi. Incessantemente, i suoi occhi stanchi ma fieri e forti si posano su di loro, in un turbinio di forza, di orgoglio, di rabbia, di dolore e di ricordi. In cambio, un ritorno – estrapolato da quegli stessi occhi – alla Speranza. La stessa speranza che muoveva Paolo Borsellino, da ventitrè anni muove il fratello Salvatore, nella sua ricerca di una verità, di una giustizia, di una memoria da consegnare alle giovani generazioni. “Il giorno dopo la strage nostra madre fece promettere a me e a mia sorella Rita – oltre che di accompagnarla dalle madri dei ragazzi della scorta che quel 19 luglio morirono insieme al magistrato, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli –  di andare ovunque ci avrebbero chiamato. Io ho parlato ininterrottamente dal 1992 al 1997: parlavo soprattutto di speranza, la mia, quella egoistica. Fino a che non l’ho persa e – di conseguenza – ha perso il diritto di parlare. “Fu il secondo più grave sbaglio della mia vita, perchè perdere la speranza è peggio che essere morti”. Così, nel 2007 riprese a parlare stimolando nei giovani “non la commozione, ma la rabbia”.

Nasce così il movimento delle Agende Rosse, un moto spontaneo originato attorno a Salvatore Borsellino e agli incontri da lui promossi in tutta Italia. L’agenda era quella rossa, dei carabinieri, su cui Paolo aveva iniziato ad annotare ogni passaggio riguardante la morte di Giovanni e la famosa trattativa. Durante i funerali di Stato del magistrato, una Palermo sdegnata “si rivoltò contro quegli stessi uomini delle istituzioni che pretendevano di sedersi nelle prime file; striscioni con scritte antimafia sventolavano dai davanzali, e ribellarsi a Palermo allora non era come ribellarsi alla Parma di allora”. Perchè la mafia è come un “tumore lasciato a se stesso, cresciuto in maniera incontrollata, che si espande nel corpo, crea metastasi e finisce per intaccare tutto l’organismo. Non esiste una regione nel nostro Paese che non ne sia travolta, oggi in maniera più subdola e meno visibile” rendendoci estranei agli anticorpi: “se ci si mette degli occhiali belli potenti la si vede perchè i segnali ci sono”, dichiara Borsellino.

“Essere fratello di Paolo Borsellino non vuol dire niente, se c’era un fratello per Paolo era Giovanni Falcone, una persona che con lui condivideva le stesse battaglie, e con lui ha condiviso la stessa morte”, spiega Salvatore Borsellino. Si rifiuta di chiamarlo “eroe” suo fratello, soprattutto in un Paese in cui “omertà ed eroismo coincidono”, dove lo stesso attributo è stato rivolto da Silvio Berlusconi a Vittorio Mangano perchè in carcere si è rifiutato di fare nomi. Paolo era un uomo che da un certo momento in poi ha deciso di dedicare la sua vita a combattere la mafia, “e credo che sarebbe stato felice se, anche grazie alla sua morte, il suo sogno si sarebbe realizzato”. Paolo era un uomo che negli ultimi tempi aveva smesso di coccolare i suoi figli perchè sperava che avrebbero sofferto di meno quando lui non ci sarebbe stato. Parla di Lucia, di Manfredi e di Fiammetta, i figli , lasciati soli: “le possibilità che si aprono loro sono quella di chiudersi nella sofferenza e di piangere solamente durante la commemorazione annuale di fronte alle telecamere per fare audience, o quella di portare avanti in maniera ostinata la loro battaglia, come faccio io”.

Infine, chiude ancora una volta con un appello rivolto a loro, ai giovani: “Diffidate dai politici che dicono ‘il futuro è vostro’. Chiedete e chiedetevi il perchè di questo futuro, pretendete risposte a quelli che ve l’hanno consegnato così, perchè questo Paese è vostro e ve lo dovete riprendere”. Non serve a nulla andar via, afferma, perchè prima o poi le mafie colpiranno anche il resto d’Europa. “La speranza di Paolo siete voi, coi vostri occhi, coi vostri cuori, con la vostra rabbia. Paolo non sperava per se stesso, ma sperava per voi. E voi combattete sempre per i vostri sogni: solo così non morirete mai, come non è morto lui”.

 

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