di Danilo Rota e Samuele Motta
Il 26 marzo la Corte Costituzionale ha depositato le motivazioni di una sentenza alquanto controversa, soprattutto per l’effetto che avrà su molti procedimenti penali di mafia.
La vicenda ha inizio nel 2013, dopo che un’indagine dei magistrati di Lecce sfocia nell’arresto di un quarantenne tarantino incensurato, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa persona nell’autunno di due anni prima, avrebbe consapevolmente messo a disposizione del clan Taurino, pur non essendone inserito organicamente, sue conoscenze tecniche e suoi macchinari. L’obiettivo era scoprire e quindi neutralizzare i diversi strumenti usati dagli inquirenti per captare le conversazioni tra i criminali (ad esempio microspie, GPS e telecamere posizionate nel centro storico di Taranto). Così facendo il quarantenne avrebbe contribuito a mettere il suddetto clan al riparo dall’attenzione delle forze dell’ordine.
L’avvocato difensore dell’uomo presenta al giudice un’istanza per chiedere gli arresti domiciliari e, sebbene il GIP di Lecce Giovanni Gallo sia inizialmente convinto della necessità delle misure di custodia cautelare in carcere (visti i legami intrattenuti dall’indagato con i vertici di un clan mafioso ancora in attività), dopo circa sei mesi cambia opinione: i domiciliari sono una misura cautelare idonea a prevenire il pericolo di reiterazione del reato. Infatti, secondo lo stesso magistrato, una volta confinato a casa sua l’indagato non potrebbe più mettere al servizio della mafia le sue abilità.
Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa rende però, per legge, obbligatorio il carcere quale misura di custodia cautelare, anche se nel caso concreto le esigenze cautelari (il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove e la reiterazione del reato) potrebbero essere soddisfatte con misure alternative meno afflittive, come appunto gli arresti domiciliari.
Il giudice Gallo solleva allora, presso la Corte Costituzionale, questione di legittimità costituzionale della norma (l’art. 275, c.3, secondo periodo del codice di procedura penale, così come modificato nel 2009), sospendendo il procedimento in corso, ma mantenendo comunque l’indagato dietro le sbarre. La Corte Costituzionale ha quindi emesso la sentenza (la n.48/2015), di cui si accennava all’inizio, il 25 febbraio scorso, ritenendo fondate le ragioni del GIP di Lecce, nonostante l’Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri, avesse chiesto di dichiarare la questione manifestamente infondata.
La Consulta evidenzia infatti come sia sostanzialmente evidente la differenza fra il “concorrente esterno alla mafia” (cioè chi, senza essere stabilmente inserito all’interno dell’organizzazione criminale, fornisce un contributo di causa efficiente, consapevole e volontario alla conservazione o al rafforzamento del clan) ed il mafioso partecipante. Quindi, secondo la Corte, nei confronti del primo non sarebbe mai ravvisabile quel vincolo di adesione permanente al gruppo mafioso che possa legittimare il ricorso esclusivo alla misura carceraria come mezzo adatto a recidere i rapporti dell’indiziato con l’ambiente criminale di appartenenza e a neutralizzarne la pericolosità.
Nonostante infatti il ruolo dell’esterno, la cosiddetta “area grigia”, sia spesso di fondamentale importanza per il perseguimento degli obiettivi mafiosi, per la Consulta “tali considerazioni attengono […] alla gravità dell’illecito commesso dal concorrente esterno, che dovrà essere congruamente apprezzata in sede di determinazione della pena, all’esito della formulazione di un giudizio definitivo di colpevolezza”. Cioè il solo fatto che l’indagato agisca in un contesto mafioso e probabilmente a vantaggio di questo non basta per far presumere in maniera assoluta che sia solo la custodia carceraria a poter soddisfare le esigenze cautelari. Infatti l’elemento determinante per rendere costituzionalmente legittima tale presunzione assoluta sarebbe proprio quello di cui è sprovvisto, per definizione, il concorrente esterno: ovvero l’inserimento stabile all’interno di un’organizzazione mafiosa, alla quale resta “solamente” contiguo.
La Consulta conclude quindi che, per l’applicazione di misure cautelari ad un presunto concorrente esterno in associazione mafiosa, il giudice è obbligato a optare per il carcere; tuttavia, se vi sono elementi specifici relativi al caso concreto per i quali le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure alternative meno afflittive, allora bisogna scegliere queste ultime. Pertanto se già con gli arresti domiciliari le esigenze cautelari possono trovare piena soddisfazione, risulta irragionevole la carcerazione prima della condanna definitiva. Tanto più se il supporto garantito dall’esterno risulta episodico o si esplicita in un solo contributo.
Secondo il ragionamento compiuto dalla Corte, siccome il reato di concorso esterno può manifestarsi in concreto con diverse modalità, esse non possono essere omologate dall’esclusione aprioristica di qualsiasi possibile alternativa alla custodia carceraria come strumento per contenere la pericolosità sociale del soggetto. Concludendo che “mentre, nel caso dell’associato, la presunzione di pericolosità sociale cede […] solo di fronte alla dimostrazione della rescissione definitiva del vincolo di appartenenza al sodalizio; nel caso del concorrente esterno – che non ha alcun vincolo da rescindere, stante la sua estraneità all’organizzazione – il parametro per superare la presunzione è diverso e meno severo, rimanendo legato alla prognosi di non reiterabilità del contributo alla consorteria”.
Questa sentenza e queste motivazioni potrebbero e dovrebbero far riflettere, portando anche all’interno dell’ambito giuridico un argomento – quello della pericolosità del supporto dei cosiddetti “colletti bianchi” e degli esterni all’organizzazione criminale di stampo mafioso – che altri hanno già risolto, tanto da far affermare ad alcuni esperti che “la vera forza della mafia sia al di fuori della stessa”.
FONTE: http://danilorota.blogspot.it/2015/04/se-il-concorso-e-esterno-alla-mafia-e.html