La prima di “Se dicessimo la verità” al Piccolo Teatro di Milano

di Ilaria Franchina

Al saluto del Direttore del Piccolo Teatro di Milano Claudio Longhi e dell’Assessore alla Cultura del Comune Milano Tommaso Sacchi, segue il buio sul Teatro Melato. Non vi è un vero e proprio palcoscenico, ma un’ampia apertura ad anfiteatro. Da una parte le poltrone disposte a semicerchio, dall’altra il palco che si estende fino ai piedi degli spettatori. Qui le rappresentazioni teatrali sono un’onda che investe il pubblico, non il solito piano rialzato a scandire la separazione -almeno fisica- tra attori e platea.  Alla scenografia quasi assente si sostituiscono le parole degli attori: dalla lettera ai Ministri della nostra Repubblica, alle storie di vittime di mafia, dalle spiegazioni su come agisce la criminalità organizzata alle storie delle realtà virtuose che l’hanno combattuta. 

La compagnia teatrale dell’associazione CCO- Crisi Come Opportunità, porta in scena la vita contaminata dal crimine organizzato. Vita che è anche e soprattutto la nostra, dal momento che si parla di storie di ‘ndrangheta. A Milano infatti si parla di ‘ndrangheta, a Napoli di camorra, a Palermo di mafia, perché sono questi l’obiettivo e la metodologia: raccontare al pubblico storie di prossimità. Storie che appartengono alla quotidianità di quella cittadinanza che arriva a teatro e lì scopre che, nel paese poco distante da casa sua, una giornalista è stata pubblicamente minacciata da un capo ‘ndranghetista. Bisogna andare a teatro per scoprirlo? Questa storia ci dice che oggi è anche così. 

Il sipario si chiude e prendono posto sulla scena, a fianco alla fondatrice di CCO Giulia Minoli, le persone che incarnano quella realtà. Le vittime, i familiari e le associazioni che sono stati i protagonisti autentici di quella storia. Non solo retorica, quindi. Lo spettacolo si “incarna” e il pubblico è chiamato a dialogare con quella realtà.

Le due manager del progetto raccontano come sia nato nel 2011 a Napoli il primo spettacolo: Dieci storie proprio così. Da allora ha continuato ad evolversi in nuovi capitoli, integrando storie nuove, mantenendo lo stesso messaggio: cos’è la mafia e quanto ci riguarda. Le storie sono state raccolte dai territori e integrate dalle realtà attive in essi come Addio Pizzo, il Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità e le Università di Torino e Milano (CROSS).
Più volte, durante la rappresentazione, il pubblico viene stimolato a riflettere sulle scelte personali e su come queste abbiano la capacità di intercettare i progetti mafiosi togliendo loro potere. L’invito è rivolto soprattutto ai ragazzi, anche perché a loro – studenti delle superiori- sono rivolti gli spettacoli e i laboratori che ne accompagnano le presentazioni nelle scuole, come racconta Giulia Agostini. A loro è rivolto il monito di non prendere parte alla distrazione di massa che rende indifferenti a quelle vicende e quegli esempi di resistenza. A non diventare prestanomi, “uomini cerniera” o professionisti corrotti. Certo, loro ancora non lo sono e serve farli riflettere su questo, ma quanto chiediamo a quei ragazzi? Gettare sulle loro spalle la responsabilità -non da poco- di essere cittadini virtuosi e consapevoli è la stessa che togliamo dalle nostre? Gli esempi portati sul palcoscenico dimostrano che non è così: c’è stata una società che ha reagito e porta i nomi di donne e uomini come Gaetano Saffioti e Maria Chindamo. A noi rimane da riflettere: le promesse che come società chiediamo di realizzare ai ragazzi sono quelle che noi non siamo stati in grado di mantenere?

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