Di Amedeo Paparoni
Da quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina il web ha mostrato un forte interesse per le azioni del collettivo hacker Anonymous contro il governo russo e la sua propaganda. Con l’hashtag #OpRussia sono infatti state portate avanti diverse azioni dimostrative come gli attacchi ai siti governativi russi al fine di metterli fuori uso, l’interruzione delle trasmissioni televisive russe con la messa in onda di canzoni ucraine e la diffusione di immagini della guerra su canali non convenzionali per aggirare la censura di Mosca. Anonymous, gruppo nato nel 2004, non è l’unico che negli anni si è distinto con azioni dimostrative online contro governi, istituzioni e multinazionali, ma è sicuramente quello più noto. Dei suoi componenti si sa poco perché la sua organizzazione decentralizzata permette potenzialmente a chiunque di unirsi a questa comunità o, come spesso si autodefinisce, legione di hacktivisti. Le azioni del collettivo sembrano seguire l’etica hacker documentata per la prima volta nel 1984 dallo scrittore Steven Levy nel libro “Hackers. Gli eroi della rivoluzione informatica”. Tuttavia alcuni eventi controversi, come l’attacco ad alcuni quotidiani online, hanno messo in dubbio il rispetto di queste regole anche da parte dello stesso autore del libro.
Viene da chiedersi se la guerra digitale possa un giorno volgere lo sguardo alla lotta al crimine organizzato. Esiste un precedente, risalente all’ottobre 2011, quando Los Zetas, temibili narcotrafficanti messicani noti per le capacità militari e per l’elevata propensione a ostentare la violenza, hanno rapito un membro di Veracruz del collettivo hacker. La reazione di Anonymous è stata immediata: hanno minacciato la diffusione di informazioni sensibili riguardanti membri del cartello e fiancheggiatori. Viene infatti da pensare che risalire alle identità e ai covi dei membri degli Zetas non sia impossibile, vista la loro propensione a utilizzare piattaforme digitali come YouTube per diffondere video di minacce, rivendicazioni o esecuzioni. Quando alcuni membri del collettivo, spaventati dalla volontà degli Zetas di rintracciarli e colpirli, hanno dichiarato di aver abbandonato le operazioni, l’azione contro il cartello messicano sembrava destinata al fallimento. Tuttavia pochi giorni dopo l’attivista di Veracruz è stato rilasciato, seppur con la minaccia di pesanti ritorsioni qualora le attività di Anonymous fossero proseguite.
I boss vecchio stampo sono scaltri e non utilizzano la tecnologia in modo disinvolto. Il super ricercato Ismael “El Mayo” Zambada, narcotrafficante settantatreenne considerato la guida del cartello di Sinaloa, prende diverse precauzioni per rendersi irrintracciabile. Si racconta per esempio che non dia mai ordini diretti, ma che utilizzi un intricato metodo di passaparola studiato per non poter risalire a lui. Alcuni sui sodali, però, sono stati meno cauti. È noto un episodio riguardante Jesús Alfredo Guzmán Salazar, figlio dell’allora latitante “El Chapo” Guzmán, che nel 2015 ha pubblicato su twitter una foto semicamuffata che lo ritraeva con il padre, dimenticando di togliere la geolocalizzazione. Anche Ivan, fratello maggiore di Jesús Alfredo, ha pubblicato sul web diverse foto in cui compare a volto coperto, accanto al suo leone. In altri post sono presenti le foto della sua Ferrari, al cui interno si trova un fucile Ak-47. Tra i narco-junior, giovani rampolli dei baroni della droga, sembra infatti diffuso l’utilizzo dei social network, alle volte con post accompagnati da hashtag evocativi come #narcolife o #narcolifestyle.
Queste leggerezze espongono i narcotrafficanti e i loro fiancheggiatori non solo a possibili attacchi da parte di hacker etici ma anche alle attenzioni delle forze dell’ordine. Queste hanno ben chiaro come i canali digitali possano essere utili alle loro attività investigative. Nel marzo del 2021 Marc Feren Claude Biart, ricercato per associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti per conto del clan Cacciola di Rosarno, è stato individuato dalle forze dell’ordine a Boca Chica, nella Repubblica Dominicana, a seguito della pubblicazione su YouTube di video-tutorial di ricette. A poco è servito non mostrare mai il volto.
Le forze dell’ordine fanno uso anche di altri strumenti informatici come i Trojan-spy, virus in grado di spiare gli utenti, per individuare i latitanti. Il magistrato Catello Maresca ha infatti raccontato che la cattura di Michele Zagaria, boss camorrista del clan dei casalesi, è stata possibile anche grazie all’installazione di un virus nel computer di Vincenzo Inquieto, artigiano di Casal di Principe che ha nascosto in casa il boss per almeno due anni.
Anche tra i mafiosi siciliani e calabresi si sono riscontrati casi in cui l’utilizzo disinvolto di social network ha portato al loro arresto. Nel novembre del 2017 il giornalista Paolo Borrometi è stato minacciato da Francesco De Carolis, fratello del boss pluricondannato Luciano u Nano, con un messaggio audio recapitato via Facebook. Queste minacce hanno portato alla condanna in primo grado di De Carolis a 2 anni e 8 mesi di reclusione. Simile il caso dei palermitani Francesco Paolo e Tommaso Bonfardeci, rispettivamente padre e figlio. Nel 2012 il giovane aveva ritenuto opportuno utilizzare Facebook per minacciare un esercente che non voleva pagare il pizzo. Questi messaggi hanno fatto scattare le indagini e l’arresto per tentata estorsione. Anche il latitante calabrese Pasquale Manfredi è stato tradito da un accesso a Facebook. Il suo arresto, avvenuto a Isola di Capo Rizzuto nel 2010, è stato possibile seguendo le tracce generate dai suoi accessi al web.
Ma potrebbe un gruppo di hacker etici essere un alleato alla lotta al crimine organizzato? Sgominare complesse organizzazioni criminali richiede strumenti sempre più raffinati e innovativi e, per quanto sia ingenuo pensare che un gruppo di hacker, più o meno indipendenti, possa fare la differenza, non è da escludere che in futuro possa essere d’aiuto. Il rischio di azioni portate avanti in piena autonomia è però quello di interferire con le strategie delle forze dell’ordine e minarne i risultati. Bisogna inoltre considerare che, anche se non tutti gli attacchi di Anonymous sono illegali e in alcuni casi sono assimilabili a nuove forme di disobbedienza civile, è evidente la contraddizione di combattere il malaffare con azioni illecite o borderline. Un bel dilemma etico. Forse sarebbe meglio se tra i consulenti informatici delle forze dell’ordine figurassero degli hacker maledettamente bravi. Ammesso che questo non succeda già.