di Attilio Occhipinti (generazionezero.org)
È venerdì mattina, la pioggia non sembra dare tregua a Torino negli ultimi giorni. Il 68 è un po’ in ritardo e tra poco più di un’ora, alle 9.30, si apriranno i giochi. È il giorno della sentenza di primo grado del processo Minotauro, il processo alla ‘ndrangheta che opera in Piemonte.
Dopo aver fatto il tragitto sull’autobus (sì, alla fine è arrivato) strapieno di gente, pressato come un francobollo sul finestrino vicino alla macchinetta obliteratrice, ecco il tribunale “Bruno Caccia”. Ed ecco arrivare anche la neve, a far compagnia alla pioggia.
In tribunale
Appena dentro il tribunale, una fila di persone attende di essere controllata dal metaldetector della sicurezza. Passati i controlli mi dirigo verso la maxi aula 1, ma l’impresa si preannuncia difficoltosa, a causa della vastità del tribunale e, detto sinceramente, della mia inesperienza con questa struttura. Dopo qualche passo falso, imbocco la strada giusta e in ascensore mi dà una mano, a sua insaputa, proprio il Procuratore Capo di Torino Gian Carlo Caselli, atteso nella maxi aula da lì a pochi minuti. Capelli bianchi e ben pettinati, sguardo basso, parla con un paio di collaboratori. Alla fine di questo anno andrà in pensione. Io lo guardo e mi scappa un leggero sorriso, mentre penso cose del tipo “quasi quasi gli faccio due domande al volo, chissà come la prenderebbe!”. Ad ogni modo, si aprono le porte dell’ascensore e, per non sbagliare, decido di seguirlo. Tanto andiamo dalla stessa parte.
In aula, alla presenza di comuni cittadini, parenti degli imputati, giudici e avvocati, mi accomodo in fondo, da una posizione che mi dà l’opportunità di osservare i detenuti, separati da una parete di vetro dal resto dei presenti.
Sono le ore 9.35 e il presidente della corte, Paola Trovati, comincia a fare l’appello. Sono 75 gli imputati che attendono di essere giudicati. Un’attesa che si legge anche e soprattutto sul volto dei familiari, mentre i giornalisti si dividono tra fotografie, riprese video e veloci ditate sulle tastiere dei notebook. Finito l’appello il presidente della corte si rivolge al pubblico ministero: “Il Pubblico Ministero rinunzia alle repliche”, così dice al microfono Caselli, che subito si risiede.
La corte, allora, si ritira in Camera di consiglio. Se ne riparlerà nel pomeriggio alle 17, quando verrà letto il dispositivo e saranno giudicati gli imputati.
Il tempo della sentenza
Puntuale alle 17 arriva il momento del giudizio. Oltre alla Regione Piemonte, alla Provincia di Torino e alle altre amministrazioni comunali costituitesi parti civili vi è anche don Luigi Ciotti. Sono 36 gli imputati condannati, circa la metà di loro è stata assolta. Questo è, in estrema sintesi, il bilancio di un processo che ha smascherato udienza dopo udienza il gioco della ‘ndrangheta in Piemonte.
L’operazione nata nel 2006 ha portato, nell’estate del 2011, all’arresto di 146 persone. Le indagini hanno portato alla luce il regno della malavita di stampo calabrese nel territorio piemontese, che, attraverso il favore di una certa politica piegata alla causa criminale, ha potuto godere di diversi privilegi. Il sequestro di milioni di euro di beni tra terreni, appartamenti e altri immobili, il giro degli stupefacenti, quello delle estorsioni, senza tralasciare quello del gioco d’azzardo, la speculazione attorno all’edilizia, di cui, tra l’altro, il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli aveva parlato nel programma Presa Diretta. Tutto questo è Minotauro.
Dopo il comune di Bardonecchia, sciolto per mafia nel 1995, i comuni di Leini e Rivarolo sono “saltati” nel 2012 durante il corso delle indagini. A questo proposito, tornando alla sentenza, da segnalare le condanne di 10 anni per Nevio Coral, ex sindaco di Leini, e di 2 anni (più 600 euro di multa) ad Antonino Battaglia, ex segretario del comune di Rivarolo. Invece, per l’eurodeputato Fabrizio Bertot (PdL), ex sindaco di Rivarolo, è stata disposta la trasmissione degli atti in procura, affinché si indaghi per voto di scambio. La condanna più lunga, 21 anni e 6 mesi (più 4mila euro di multa), è stata invece inflitta a Vincenzo Argirò, considerato uno dei capi del Crimine (per questo e altri termini si veda il glossario) del capoluogo piemontese, mentre Salvatore Demasi, secondo la Procura capo locale di Rivoli, è stato condannato a 14 anni (3 in libertà vigilata).
Naturalmente non possiamo citare tutti i condannati, ma abbiamo riportato gli attori più in vista di questo losco giro di affari, favori e corruzione che tiene banco nel nordovest d’Italia. Sono, infatti, nove le locali ‘ndranghetiste che nel corso di tutti questi mesi sono venute fuori dalle indagini e chissà quante altre ancora ce ne saranno.
Le vicende piemontesi sembrano avvicinarsi più al mito del vaso di Pandora che a quello del Minotauro, ma, mitologia a parte, siamo oramai ben lungi dal credere che il potere mafioso in queste terre sia meno forte di quel che si possa credere. È facile pensare che siamo solo all’inizio.