A volte, certe coincidenze sono interessanti. E parecchio. Smontata Expo, spenti i riflettori milanesi e tutti con gli occhi puntati sulla suburra romana, ecco invece la condanna per uno degli ex re delle grandi opere lombarde. Arriva a Bergamo, si snoda attraverso Brescia e vede al centro Pierluca Locatelli, ex «imperatore» delle costruzioni, ex titolare di un colosso (la «Locatelli» di Grumello del Monte, nel Bergamasco) da centinaia di operai, milioni di fatturato e infinità di cantieri, ormai ex tutto.
La data fatidica, quella della fine della sua corsa, è il 30 novembre 2011: dieci arresti intaccano mediaticamente (il 2 dicembre 2011, ad esempio, il Corriere della sera, in un articolo a firma di Claudio Del Frate, titola «La Brebemi come una discarica») la BreBeMi, in manette finisce lo stesso Locatelli, e ci finisce soprattutto (per un altro motivo) Franco Nicoli Cristiani, allora vicepresidente Pdl del Consiglio regionale e già assessore all’Ambiente di Regione Lombardia. Per la «capitale morale» del paese, una bella botta. Le accuse dei magistrati, e in particolare della Direzione distrettuale antimafia bresciana, sono pesanti: una mazzetta da 100mila euro recapitata da Locatelli a Nicoli Cristiani per sveltire l’iter per una discarica di amianto a Cappella Cantone (Cremona) e il presunto smaltimento illecito di rifiuti tossici sotto l’autostrada in costruzione (contestato all’imprenditore, non al politico), in particolare nei cantieri di Fara Olivana con Sola (Bergamo) e Cassano d’Adda (Milano). Ma occorre fermarsi un attimo, incastrare i tasselli del mosaico, tracciare il disegno di un quadro nero.
La condanna a Locatelli, si diceva: quella giunta martedì 3 novembre 2015, infatti, riguarda un’altra storia. Ma è da questa vicenda che è partito il lavoro d’indagine che ha portato a far luce sull’«autostrada fantasma» lombarda. Tra le grandi opere affidate all’imprenditore c’era infatti la variante di Orzivecchi, provincia di Brescia. Snodo cruciale della trama: l’impianto di Biancinella (a Calcinate, Bergamo), di proprietà di Locatelli, in cui delle scorie di fonderia avrebbero dovuto essere «purificate» prima di giungere al cantiere bresciano per essere impiegate nella realizzazione del manto stradale. Per i magistrati, non è andata proprio così: quelle scorie non sarebbero state trattate adeguatamente. Impianto accusatorio sostanzialmente confermato in Tribunale: sei anni la condanna inflitta dal giudice Vito Di Vita all’imprenditore per il traffico illecito di rifiuti, e condanne pure alla moglie e ad altri collaboratori di Locatelli. Un round importante, su cui peserà ora l’iter verso l’appello, ma fondamentale. Perché riconosce un dato di fatto: tra Bergamo e Brescia c’è una bomba ambientale.
«Lo scopo della BreBeMi? Interrare rifiuti»
Nero su bianco. Parlano le inchieste, i documenti, i verbali. L’ultima relazione annuale della Direzione nazionale antimafia racconta del distretto giudiziario bresciano come di un territorio dove la criminalità ambientale è aggressiva e manifesta, con condotte «non meno e anzi forse più pericolose di quelle cui tanta attenzione si è dedicata, consumatesi in territorio campano, se non altro perché neppure il bagliore dei fuochi levantisi verso il cielo ha potuto segnalare la presenza di qualcosa di terribile nelle viscere ella terra». Meno prosaicamente: un’altra «Terra dei fuochi».
Rieccoci alla BreBeMi, allora. Automobili che la frequentano? Poche. Ombre? Tante. Il 4 novembre 2014, una manciata di mesi dopo l’inaugurazione, di fronte alla Commissione d’inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti si svolge l’audizione di Roberto Pennisi, sostituto procuratore nazionale antimafia. Le sue parole sono pietre: «L’unico scopo al quale fino a questo momento è servita la BreBeMi è stato per interrare rifiuti. Spesso vado da Brescia a Napoli in ferrovia. La ferrovia corre parallelamente alla BreBeMi e io la vedo sempre vuota». Per quell’inchiesta (formata da due filoni distinti), un primo punto è stato segnato: sulla vicenda della discarica d’amianto, a ottobre 2014 è arrivato un patteggiamento per Nicoli Cristiani (due anni) e la condanna in rito abbreviato a Locatelli (due anni). La battaglia legale (rallentata da alcuni cavilli procedurali), ora, è tutta sullo smaltimento illecito di rifiuti (sotto accusa c’è l’ex imprenditore edile, mentre l’ex politico è estraneo; la società Brebemi si è costituita parte civile).
L’imprenditoria, la politica e anche la pubblica amministrazione: sempre dinnanzi alla Commissione sul ciclo dei rifiuti, la pm bresciana Silvia Bonardi ha riferito dell’esistenza di rapporti «anomali» tra Locatelli e alti dirigenti dell’Arpa (l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) di Bergamo. E, guarda caso, quel 30 novembre del 2011 in manette finì pure Giuseppe Rotondaro, dirigente dell’Arpa lombarda (ha patteggiato un anno e otto mesi).
Manca solo la criminalità organizzata. E questo, forse, è un fattore particolare del contesto «ecocriminale» bergamasco-bresciano: la ‘ndrangheta si vede poco, la sua presenza è solo sfumata, sono soprattutto gli imprenditori a sporcarsi le mani. Qualche rapporto tra la «Locatelli» e le ‘ndrine, comunque, è emerso. Tocca riavvolgere il nastro almeno al 2006, quando l’azienda bergamasca è impegnata nei lavori per l’alta velocità Milano-Venezia a Melzo. Ottenuto il subappalto dalla «De Lieto» (la principale impresa aggiudicataria), per alcuni lavori di movimento terra la «Locatelli» si avvale della «P&P», la ditta facente capo a Marcello Paparo, calabrese di Isola di Capo Rizzuto trapiantato a Milano, successivamente arrestato nel 2009 su richiesta della Dda meneghina. Durante quei lavori, la società di Paparo ha un problema non di poco conto: come aggirare le normative antimafia? Serve un consiglio, un suggerimento. A Romualdo Paparo, fratello di Marcello, glielo offre un geometra della «Locatelli» (i dipendenti dell’azienda bergamasca non avranno conseguenze penali per intervenuta prescrizione): sui camion della «P&P», «schiaffaci due targhette “Locatelli”, no?». Come non averci pensato prima?
Dolci colline di rifiuti
Ci sono poi strane colline che spuntano dal nulla. Si prenda Montichiari, cittadina di 25mila abitanti a una ventina di chilometri di Brescia. Zona storicamente pianeggiante, negli ultimi anni ecco sorgere degli strani rilievi. Tettonica delle placche? Materia per geologi? No, la causa è un’altra: i rifiuti. Non lo dice un visionario: lo sostiene il procuratore generale di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, di fronte alla Commissione d’inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti, giunta da quelle parti per un’apposita missione tra il 15 e il 16 giugno 2015. «Montichiari è una zona pianeggiante, o perlomeno lo è stata dall’assestamento tettonico risalente a quando la nostra specie non era sulla terra – spiega il magistrato con una punta d’ironia –, fino ad alcuni anni fa. Attualmente, la pianura di Montichiari è un sito collinare. A parte i casi di vulcanismo, qui totalmente assenti, le colline non spuntano come funghi, e infatti si tratta di colline del tutto anomale, cioè di cumuli molto estesi di rifiuti, alcuni messi più o meno in situazione di attenzione, con qualche cautela». » . Contromisure? Nulla: «Non mi risulta che siano in atto studi o altro per una bonifica di Montichiari», sentenzia amaramente Dell’Osso. «Come è possibile?», è la domanda che sorge spontanea. Serve ripensare alle cave disseminate nella brughiera di Montichiari negli ultimi decenni: e dalle cave alle discariche (negli anni se ne sono succedute diciassette) e ai possibili illeciti connessi, il passo è breve.
Australian connection
La Valle Camonica e l’Australia. Le montagne e il deserto, i camosci e i canguri, il freddo e il caldo. Qualcosa in comune? Nemmeno l’emisfero, verrebbe da dire. Eppure, nel 2009, a Tomago, centro di nemmeno trecento anime disperso nel Nuovo Galles del Sud, qualcuno ha un’idea. E che idea.
Perché lì, a Tomago, a due ore di macchina da Sidney, c’è praticamente solo un grande business: l’alluminio, e in particolare la fonderia della «Tomago Aluminium Company», giro d’affari miliardario. Gli scarti della lavorazione sono un’infinità, liberarsene non è facile. Tra settembre 2009 e febbraio 2010 inizia la traversata intercontinentale di quegli scarti, soprattutto celle elettrolitiche della fusione dell’alluminio. Ventitrémila tonnellate, cifra esorbitante: via mare da Sidney a Porto Marghera, via tir (800 tir) da Venezia a Berzo Demo. Ma cosa c’è in quegli anni a Berzo Demo, paesino incastonato in quella valle che separa la provincia di Bergamo da quella di Brescia? La «Selca», società sorta negli anni Novanta, guidata dai fratelli Flavio e Ivano Bettoni, che nel 1998 ottiene una prima autorizzazione da Regione Lombardia per trattare rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi, autorizzazione che nel 2002 permette alla società di trattare fino a 150mila tonnellate annue. Coincidenze: chi è l’assessore regionale all’Ambiente dal 1995 al 2005? Franco Nicoli Cristiani, finito in manette per l’affaire Cappella Cantone. Oltre che dalla «Terra dei canguri», rifiuti da trattare arrivano anche da tutta Italia, dall’Europa, persino dall’Asia.
«Trattare i rifiuti», tuttavia, è un eufemismo. Benché si presentasse come «altamente specializzata», la reale prassi adottata dall’azienda la illustra Pier Luigi Maria Dell’Osso alla Commissione sul ciclo di rifiuti: «Questi rifiuti tossici non erano trattati adeguatamente, la Selca non ha mai avuto la disponibilità di attrezzature. Inoltre, risulta che rivendesse stabilmente i medesimi rifiuti tossici come materie prime secondarie in dettaglio quali combustibili ad acciaierie e cementifici». Scorie non trattate, rifiuti abbandonati a se stessi, probabili sversamenti, emissioni fuori controllo. E falde acquifere inquinate, come rilevato dall’Arpa: particolare non da poco, a due passi dall’azienda scorre il fiume Oglio, che fra Costa Volpino (Bergamo) e Pisogne (Brescia) va a formare il lago d’Iseo.
Capita pure che sulla «Selca» si posino gli occhi della criminalità. Premessa fondamentale: dalla seconda metà degli anni Duemila (nel 2004, nel frattempo, la magistratura bresciana effettua il primo sequestro di rifiuti), la società entra in crisi e nel 2010 arriva il fallimento. Per salvarla, a un certo punto, si interessa Guido Catapano, alla testa dell’omonimo gruppo imprenditoriale napoletano, secondo alcune fonti in odore di camorra, poi arrestato il 29 marzo 2011 insieme ad altre tredici persone per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. E la storia dell’Australia? Altre ombre, e per far luce si sta muovendo Dell’Osso: «Ho già avviato indagini sull’impresa australiana, perché in Australia la ‘ndrangheta c’è, contrariamente a quello che gli australiani pensano». C’è anche nel Nuovo Galles del Sud, infatti. E da decenni: nel 1977, a Griffith, ad esempio, viene ucciso Donald Mackay, deputato del Nuovo Galles del Sud, primo omicidio eccellente della mafia calabrese in terra d’Australia.
È una storia che si annuncia ancora lunga e tortuosa, quella della «Selca». Sotto più fronti. In primis, quello ambientale, una ferita aperta e destinata a produrre effetti pesanti. Dal punto di vista giudiziario non si è certo messi meglio. I fratelli Bettoni sono stati rinviati a giudizio per falso e traffico internazionale di rifiuti, ma la giustizia procede lentamente: la prima udienza, prevista per il 5 giugno di quest’anno, è stata rimandata al 27 ottobre e successivamente rinviata al 7 dicembre per un’incompatibilità del giudice. Sullo sfondo, lo spettro ricorrente: la prescrizione (scatterebbe a metà 2017) e l’ennesima storia d’impunità all’italiana. La ciliegina sulla torta: Giacomo Ducoli, curatore fallimentare dell’azienda, è indagato per disastro ambientale. Stando all’accusa, non avrebbe utilizzato con la dovuta «priorità» i fondi (circa 9 milioni di euro) a disposizione per la bonifica. Quei rifiuti, insomma, sembrano abbandonati a loro stessi. Un po’ come questa nuova «Terra dei fuochi».