di Umberto Santino
So che l’articolo di Nando dalla Chiesa dal titolo “Benvenuti al circo dell’antimafia”, pubblicato sul “Fatto quotidiano” del 21 dicembre, ha suscitato reazioni, purtroppo prevedibili. Dire cose scomode su temi come questo non piace a chi ritiene che su certi argomenti è meglio tacere, o dire mezze verità, e che in ogni caso “i panni sporchi si lavano in famiglia”.
Sono successe cose gravissime come nel caso della ex sindaca di Isola Capo Rizzuto e della “rappresentante delle donne di San Luca”, raggiunte da accertamenti giudiziari, la prima perché avrebbe avuto voti da un clan di ’ndrangheta, la seconda per avere usato fondi pubblici per acquisti personali. Non sono per niente d’accordo con chi dice: attendiamo con fiducia l’esito delle inchieste, che in Italia, con tre gradi canonici (una prassi intollerabile: dovrebbe bastate il primo grado, limitare l’appello soltanto ai casi in cui ci sono novità rilevanti, rendere eccezionale il ricorso in Cassazione: ma chi vuole veramente la riforma della giustizia in Italia?), vanno per i decenni.
Per Carolina Girasole si è detto: può essere stato il marito, ma in famiglia e in un paese così piccolo sembra proprio strano che non si sappia da dove e perché vengano certi voti. Per la signora Canale si può dire che si sono create le condizioni per cui l’antimafia venga misurata più che sull’impegno concreto, sui proclami e sulle vetrine di buone intenzioni.
Non è la prima volta che accade, ma questa non è una giustificazione. Ai tempi dei Fasci siciliani c’erano due fasci organizzati e diretti da mafiosi, Bernardino Verro fu punciuto dai fratuzzi, la mafia di Corleone, ma subito dopo si schierò apertamente contro la mafia e della mafia sarà vittima nel 1915. Anche nei periodi successivi c’era il capomafia Calogero Vizzini che organizzava cooperative e ci furono tentativi di inserimento nelle strutture del movimento e per bloccarli ci fu chi ci lasciò la vita, come nel caso di Epifanio Li Puma, dirigente delle lotte contadine sulle Madonie, ucciso nel 1948. Anche di recente ci sono stati casi, come a Villabate, di personaggi vicini alla mafia che hanno promosso iniziative e associazioni antimafia, autorizzate da Bernardo Provenzano, e qualcuno ci è cascato.
Negli ultimi anni, con un sistema mediatico pronto a dare spazio ad alcuni personaggi, e a negarlo a iniziative serie, si sono creati altarini, chiesuole e cattedrali con al centro predicatori e folle di devoti, senza chiedersi chi siano, cosa dicono e cosa fanno. Così un signore che dice di avere le stimmate e che la madonna di Fatima gli ha datola mission di lottare la mafia, come anticristo del nostro tempo, organizza convegni nazionali e internazionali a cui partecipano magistrati tra i più noti per le loro inchieste antimafia. Ho provato a dire che non mi sembrava il caso, ma non sono riuscito a dissuaderli e a un certo punto non ci ho provato più.
Penso anche che i magistrati, soprattutto i più impegnati, dovrebbero essere molto sobri nelle loro dichiarazioni ed evitare di partecipare a congressi e iniziative di partito. So bene che è un loro diritto dire cosa pensano, ma il terreno dei rapporti tra mafia e politica, che a mio avviso non sono episodici e sporadici ma costitutivi del fenomeno mafioso, è troppo delicato e complesso ed espone chi tenta di dissodarlo a fortissime resistenze, anche all’interno della stessa magistratura (molti dei corvi che periodicamente sorvolano i palazzi di giustizia sono portatori di messaggi che hanno contenuti e destinatari ben facili da decifrare), e se si vuole venirne a capo per quanto è possibile sul piano giudiziario (a mio avviso solo parzialmente e inadeguatamente) occorre non prestare il fianco a critiche e attacchi che rendono ancora più arduo raggiungere un obiettivo di per sè molto difficile. Non so che esito avrà il processo di Palermo sulla trattava tra mafia e Stato; so che questo genere di relazioni, in varie forme, non è una novità, ma fa parte della storia della mafia e dello Stato fin da quando ci sono e sono documentabili anche in quelli che si possono definire “fenomeni premafiosi”, prima del formarsi del monopolio statale della forza. Su queste relazioni sarebbe chiamata a intervenire la società nel suo complesso ma per quanto riguarda i partiti, o quel che resta di essi, non bastano gli appelli all’autoregolazione, costantemente disattesi. Bisognerebbe rendere obbligatoria l’esclusione dalle liste elettorali di persone anche soltanto sospettate di intrattenere rapporti con mafiosi, a prescindere dall’esito delle indagini. La “responsabilità politica”, di cui tanto si parla, è una burla se non viene in qualche modo regolata.
Vorrei dire qualcosa su coordinamenti, associazioni di associazioni, a tutti i livelli. Le esperienze unitarie che abbiamo avuto a Palermo, negli anni ’80 con il Coordinamento antimafia, negli anni ’90 con Palermo anno uno, sono ben presto fallite perché non si è pienamente condivisa una regola che pare ovvia ma in realtà è di difficile applicazione: fare insieme le cose sui si è d’accordo, aprire il confronto sulle altre. Per fare questo occorre il rispetto delle posizioni e delle storie di ciascuno e non giocare a scavalcare e a prevalere, con comportamenti da tifoserie o da devoti del leader più o meno carismatico.
Concludo ricordando una disavventura che abbiamo avuto come Centro Impastato con un personaggio come Saviano. Ha più volte sostenuto che il film I cento passi ha fatto riaprire l’inchiesta sull’assassinio di Peppino Impastato. In realtà le inchieste si sono aperte, chiuse e riaperte varie volte e i processi ai mandanti sono cominciati prima del film, uscito nel 2000, e nel 1998 si è costituito presso la Commissione parlamentare antimafia un comitato che ha preparato una relazione sul depistaggio delle indagini, che abbiamo fatto pubblicare nel volume Peppino Impastato: anatomia di un depistaggio. Abbiamo chiesto la rettifica di affermazioni non veritiere ma non l’abbiamo ottenuta. L’editore Einaudi mi ha risposto minacciando di adire le vie giudiziarie se continuo a “diffamare”, cioè a chiedere il rispetto della verità. Per fortuna la querela di Saviano contro il quotidiano Liberazione, che aveva ripreso la nostra richiesta, è stata archiviata, perché infondata. Ma pochissimi ne hanno parlato, perché ormai si è formato il mito e i miti esibiscono il Noli me tangere.