di Nando Dalla Chiesa
Una sera nell’hinterland milanese. 4 febbraio 2022. Corsico, sotto un cavalcavia. Qui 27 anni fa venne ucciso Pietro Sanua, fruttivendolo, sindacalista del commercio ambulante, che voleva mettere pulizia nel suo mondo, infestato allora dalla presenza mafiosa. Ucciso con la lupara in un paese presidiato da agguerriti clan di ‘ndrangheta. Sotto una fila di quattro-cinque palazzoni si è raccolta per ricordarlo sulla pubblica via una folla di duecento persone, forse più. Hanno composto una fiaccolata di candele piccole e sottili. Spiccano le fasce tricolori di ben otto sindaci. Sono lì per solidarietà con i familiari della vittima ma anche per denunciare la presenza dei clan calabresi nei loro territori. Dai palazzoni si scorgono attraverso i vetri una decina di persone, le sagome appaiono quando nel buio freddo e grigio risuona la voce del parroco. Solo una coppia è uscita sul balcone. Al centro della scena, in uno spiazzo, ci sono alcune persone. Lorenzo Sanua, anzitutto, il figlio di Pietro. Era bambino allora, stava accompagnando il papà al mercato alle sei del mattino. Il padre gli cadde accanto sfigurato dai pallettoni. Per anni nessuno parlò a Milano di quell’omicidio. Né quell’omicidio ha tuttora un colpevole: nemmeno un processo c’è stato. E sì che, come ha dimostrato recentemente una ricerca dell’Università degli Studi di Milano, il contesto era chiarissimo. Bastava sapere l’abc della mafia. Ora per fortuna, anche sulla base di quella ricerca, la Direzione distrettuale antimafia, con la sua coordinatrice Alessandra Dolci, ha riaperto l’inchiesta. Un primo successo della ostinata domanda di giustizia di Lorenzo. Accanto a lui, vicino al microfono, c’è la madre Francesca. E poi Lucia, una studentessa di diciassette anni che ha fondato un presidio di Libera al liceo Beccaria. Legge riflessioni scritte con altre sue compagne.
C’è stupore, sollievo, per questa presenza che non disarma, che tiene vivo il filo della legalità pur senza avere su di sé i riflettori della stampa. Lo fa in silenzio, dignitosa, protetta da alcuni vigili, carabinieri in servizio, ex carabinieri. E di colpo -succede a volte, sapete? – mi vengono in mente, le immagini di Sanremo di nemmeno 24 ore prima. Come se il mondo si ribaltasse. Saviano che presenta al Festival la sua prossima trasmissione televisiva con il puro pretesto di ricordare Falcone e Borsellino (uccisi in maggio e in luglio…), dopo essere sceso dalle scale come un divo, totalmente privo di memoria storica (la gente che “iniziò a ribellarsi dopo le due stragi”: gli manca il decennio prima, i centomila contro Cutolo, le fiaccolate palermitane, i diecimila del Palalido a Milano…qualcuno lo faccia studiare, per favore)… È a quel punto che sento “mia”, visceralmente mia, questa folla. Avverto una vertigine, l’abisso morale che mi separa, che ci separa, dallo spettacolo ineffabile andato in onda, da estraneo assoluto, come per imperio, dentro il Festival. Vedo Lorenzo che a Corsico si batte contro la ‘ndrangheta, forte delle sue ragioni e di chi gli vuole bene, e che va a lavorare in cantiere senza un agente di scorta, che mai fra l’altro chiederebbe. E Francesca Grillo, anche lei nella folla, giovane e luminosa giornalista del “Giorno”, minacciata in pubblico dal boss Papalia, pure lei senza scorta.
Non ho nulla contro le celebrità dell’antimafia (adoro Pif, per esempio). Ma so misurare le cose e afferrarne il senso. I due scenari messi uno accanto all’altro nell’arco di un giorno sono incompatibili. Per questo alla fine ho giurato in pubblico a Lorenzo che io starò solo in quello costruito con fatica da lui e dai tantissimi come lui nella storia di questo Paese. Non per demagogia ma per ripulsa etica verso l’altro. Allo scalone da divi e alle auto-promozioni travestite da “memoria degli eroi” dell’antimafia, preferisco l’antimafia dai piedi scalzi.