Una morte silenziosa. E per troppo tempo dimenticata. Trent’anni fa come oggi veniva ucciso da killer tuttora ignoti il magistrato piemontese Bruno Caccia. Il 26 giugno 1983 era la prima domenica d’estate, a Torino, ed era sera. Pur avendo a disposizione la scorta e la macchina blindata, Bruno Caccia non rinunciava mai alla passeggiata serale con il suo cane, la sua unica libertà quotidiana. Quel giorno, però, fu l’ultima. Due uomini a bordo di un’automobile affiancarono il magistrato e gli spararono da distanza ravvicinata una decina di colpi di pistola, prima dei tre colpi di grazia finali. Ma chi era Bruno Caccia? E perché è stato così barbaramente assassinato?
Era un uomo per bene. Nato a Cuneo il 16 novembre 1917, Bruno Caccia entrò a far parte della magistratura torinese nel 1941. Dopo un breve periodo di tre anni ad Aosta, rientrò nel 1967 nel capoluogo regionale e continuò la sua battaglia per la giustizia dapprima come sostituto procuratore, poi come procuratore della Repubblica di Torino dal 1980. Si occupò di temi difficili e spinosi in quegli anni, come le violenze e i pestaggi negli scioperi o lo scandalo delle tangenti alle giunte rosse di Torino. “Il suo rigore, la sua severità e durezza nel pretendere l’applicazione delle regole erano il tentativo di non sopraffare il più forte” spiega Gian Carlo Caselli alla Cascina Caccia (confiscata alla famiglia ‘ndranghetista Belfiore nel 1996 e intitolata al magistrato ucciso) a due passi da Chivasso, in occasione del ricordo del suo collega. I due avevano collaborato nel primo processo istruito contro le Brigate Rosse. Combatteva in prima linea Bruno Caccia. Terrorismo e Criminalità Organizzata furono le sue più grandi battaglie civili e legali, portate avanti grazie alla sua totale dedizione allo Stato e al suo costante impegno. In moltissime occasioni rimaneva in ufficio fino a tarda serata, a scrivere, a leggere, a cercare di capire.
Si arrovellava soprattutto su un tema: l’infiltrazione mafiosa al nord, e in particolare quella della ‘ndrangheta calabrese che stava mettendo le proprie radici a Torino e in provincia. Bruno Caccia era convinto della massiccia presenza malavitosa nella sua regione e per dimostrare ciò iniziò una decisa lotta alla criminalità organizzata al nord. Fece pedinare i pusher siciliani che controllavano le piazze dello spaccio, inviò la polizia a perquisire le bische gestite da uomini calabresi e cominciò ad effettuare controlli bancari. Un lavoro prezioso, che fece tremare l’ascesa dei clan calabresi al dominio assoluto nella provincia torinese. Nessuno, nella parte settentrionale d’Italia, era arrivato ad osare così tanto. Del resto “La mafia al nord non esiste”, o almeno così abbiamo sentito dire fino a pochi anni fa da prefetti e uomini delle istituzioni.
La ‘ndrangheta e la mafia, invece, al nord erano presenti e non tardarono a reagire. Uomini del boss ‘ndranghetista Domenico Belfiore pedinarono il magistrato per giorni, fino al momento in cui individuarono il punto debole, il pretesto per ammazzare Bruno Caccia. Quattordici colpi di pistola, e la vita dell’integerrimo magistrato finì, alle 23.30 del 26 giugno 1983. Le prime inchieste si concentrarono subito sulla pista del terrorismo rosso, in seguito ad una rivendicazione (rivelatasi poi falsa) delle Brigate Rosse. Solo successivamente le indagini investirono la criminalità organizzata e portarono, dieci anni dopo l’assassinio, alla condanna all’ergastolo di Domenico Belfiore, riconosciuto mandante dell’omicidio. Tuttavia, sono tuttora senza nome gli esecutori materiali del delitto. Anzi, nuove inquietanti scoperte sembrano ipotizzare il coinvolgimento di servizi segreti deviati e la collaborazione della mafia catanese alle indagini, finalizzata al controllo criminale della piazza torinese in quegli anni contesa, così come rivela ‘Il Fatto Quotidiano’ in questi giorni.
“Lui mi ha insegnato il mestiere. Lui è il simbolo dell’uomo di giustizia. Questa cascina è la dimostrazione della possibilità di restituire il maltolto delle mafie. Ricordarlo qui è il modo migliore per ricordare l’impegno di un uomo morto perché credeva nella legalità e nel rispetto delle regole”, ricorda lo stesso Gian Carlo Caselli, ringraziando Libera Piemonte per la splendida gestione della cascina. A Caselli, attuale procuratore capo del palazzo di Giustizia di Torino (intitolato a Caccia dal 2001), spetterà in questi giorni l’incarico di tracciare «l’ingerenza della ’ndrangheta nella vita politica in Piemonte» nel processo Minotauro, considerato il più importante contro la ‘ndrangheta in Piemonte. La rilevanza penale della presenza criminale nel tessuto sociale regionale potrebbe essere il giusto riconoscimento al lavoro di Bruno Caccia. Una persona troppo spesso dimenticata, anche dal mondo dell’antimafia. Riappropriamoci della sua memoria e facciamola vivere sempre, tutti i giorni, con l’impegno, con il senso del dovere, con la giustizia nel cuore.