di Marika Demaria
Valle d’Aosta isola felice? Un logorato stereotipo.
Immaginare che la regione ai piedi delle Alpi sia un luogo dove i cittadini siano preservati da qualsiasi tipo di criminalità è fuorviante e pericoloso. Eppure, c’è chi ancora crede, o meglio preferisce credere, a questa sterile favola.
Un errore compiuto da una parte della cittadinanza, da alcune forze politiche e da chi, in generale, crede che la mafia – per quanto riguarda la Valle soprattutto la ‘ndrangheta – si manifesti solamente con gli omicidi e con le condanne per 416 bis. Una presa di coscienza che tarda ancora a radicarsi nella regione montana, cullata da chi sostiene che per allontanare la criminalità organizzata – quasi si trattasse di un malanno di stagione – sia sufficiente “tenere alta la guardia”.
Le indagini
Nonostante indagini della fine degli anni Novanta raccontino di un “Grand Hotel Valle d’Aosta”: la regione come rifugio per latitanti quali Luigi Facchinieri e alcuni esponenti della famiglia Iamonte. Nonostante le faide di quel periodo. Nonostante gli arresti nel 2009 per traffico internazionale di stupefacenti a carico di Giuseppe e Domenico Nirta e dei nipoti Di Donato. Nonostante nella primavera 2013 si sia verificato, in Valle, il primo caso di sequestro e confisca di beni (16 immobili tra la Valle e la Calabria e 933 mila franchi svizzeri che secondo la procura torinese sono frutto di attività illecite) riconducibili proprio a Giuseppe Nirta (i cui legali sono già ricorsi in appello). Nonostante l’inchiesta “Tempus Venit” che ha portato all’arresto di quattro persone per tentata estorsione aggravata dalla finalità mafiosa e alla condanna per favoreggiamento nei confronti della ‘ndrangheta di altre tre persone. Nonostante tutto questo, c’è chi ancora addita, chi parla di infiltrazioni e radicamento in Valle come persone che vogliono creare falsi allarmismi, gettando nel panico la popolazione.
Commissione regionale antimafia
In fondo, basta “tenere alta la guardia”. A questa frase si aggiunge a volte un timido “occorrono strumenti efficaci”, ma è difficile comprendere come concretamente si traduca questa dichiarazione. Basti pensare alla commissione regionale antimafia, istituita nella primavera dello scorso anno e conclusasi con una relazione depositata sul tavolo del presidente della regione. Stralci di audizioni di esponenti politici, della magistratura, delle forze dell’ordine e della società civile che si sono presentati davanti ai sette membri della commissione. Di natura esclusivamente politica. I verbali integrali delle audizioni sono stati resi noti solamente la scorsa settimana. La loro pubblicazione era stata richiesta da Alberto Bertin, consigliere regionale di opposizione e membro della commissione. Istanza respinta. Poi accolta. Mesi fa. Ha rilanciato Libera Valle d’Aosta, chiedendo che ai cittadini fosse data la possibilità, visitando il sito della Regione, di accedere (e scaricare) quei documenti. E come associazione si è fatto un ulteriore passaggio: si è chiesta l’istituzione di un osservatorio permanente sulle mafie, ma composto da esperti a livello nazionale della tematica, non da politici come la commissione di cui sopra. Come aveva auspicato il presidente Pisanu quando aveva incontrato una delegazione del consesso, nell’ottobre 2012.
“L’altra Valle d’Aosta”
Due richieste che sono state avanzate quando Libera Valle d’Aosta ha presentato il volume “L’altra Valle d’Aosta. ‘Ndrangheta, negazionismo e casi irrisolti ai piedi delle Alpi”, edito dal Gruppo Abele e diffuso a livello nazionale da Libera poiché rientra nella collana «I Quaderni di Libera con Narcomafie». Centodieci pagine per raccontare il passato e il presente della regione montana: malapolitica, documenti nazionali istituzionali, motivazioni di sentenze, illeciti ambientali, reati civetta come l’evasione fiscale, un focus sull’informazione locale. Emerge un quadro preoccupante, allarmante specie se si riflette sul logorato leit-motiv del “tenere alta la guardia”. Siamo convinti che non sia mai bastato, adesso meno che mai.
Ma la sera in cui, insieme al procuratore Mario Vaudano (che ha denunciato un sistema di illegalità diffuse, di clientelismo che lui stesso toccò con mano quando professò in Valle tra il 1989 e il 1994 come procuratore della Repubblica) e Paola Caccia (figlia del procuratore Bruno Caccia, primo magistrato ucciso dalla ‘ndrangheta al Nord, a Torino, il 26 giugno 1983 e a cui Libera Valle d’Aosta ha dedicato il volume), si è presentato il libro, si sono avanzate altre richieste.
Momenti conviviali tra calabresi e valdostani
Una è relativa alla Festa dei santi Giorgio e Giacomo, che quest’anno aprirà i battenti il 17 luglio per concludersi domenica 28. Una kermesse cresciuta nel corso degli anni, creata venti anni fa per ricreare momenti conviviali in cui i tantissimi calabresi trapiantati in Valle, ma anche gli stessi valdostani, potessero ritrovarsi. E che non ha più solamente una matrice religiosa, come alle origini. Una Festa organizzata da un Comitato presieduto da undici anni da Giuseppe Tropiano, condannato in primo grado lo scorso 30 gennaio dal Tribunale di Torino a un anno e quattro mesi per favoreggiamento nei confronti della ‘ndrangheta, nell’ambito dell’inchiesta “Tempus Venit”. Attualmente, Tropiano risulta indagato anche in un filone parallelo alla sopracitata indagine: l’accusa è di abuso di ufficio, in relazione agli atti esecutivi della delibera della giunta regionale per l’acquisizione del parcheggio pluripiano di 509 posti auto, con la formula di “acquisto di cosa futura”. La costruzione si riferisce all’imponente appalto da 16 milioni e 900 mila euro affidato proprio a Tropiano, titolare della società “Saint Bérnard Srl”, beneficiaria del contratto.
Una posizione “inopportuna” secondo Libera Valle d’Aosta, che ha chiesto le dimissioni del presidente del Comitato. La risposta, a distanza di un mese, la si apprende dalle colonne di un settimanale valdostano, «Gazzetta Matin» (edizione del primo luglio), dalle dichiarazioni dello stesso Giuseppe Tropiano: «Sono sereno, so di non aver fatto niente di male e sono fiducioso del lavoro della magistratura, convinto che giustizia sarà fatta. Nessun imbarazzo, mai pensato alle dimissioni, qui c’è da lavorare». Ulteriore passaggio: la sede del Comitato è presso la parrocchia di Saint-Martin (quartiere di Aosta), proprio in virtù della genesi della Festa. Libera Valle d’Aosta aveva chiesto che la sede legale fosse depennata dalla parrocchia, proprio a tutela della moltitudine dei fedeli. E per una questione etica. Anche in questo caso, la risposta alla richiesta la si legge sulle pagine del settimanale valligiano. Alla domanda “È opportuno che il Comitato abbia sede alla parrocchia di Saint-Martin de Corléans?”, Tropiano replica: «Perché no? In quella chiesa sono custodite le statue dei nostri cari santi Giorgio e Giacomo (…). Non vedo dove sia il problema». In linea con queste dichiarazioni, le affermazioni di don Albino Linty-Blanchet, a capo della parrocchia, che «ha finalità esclusivamente religiose ed è in questo senso che bisogna interpretare la collocazione della sede del Comitato. Gli aspetti che interessano alla parrocchia sono unicamente legati alla celebrazione della ricorrenza, di tutto il resto non so nulla e non voglio nemmeno saperlo». Incalza la giornalista: “D’accordo, ma non le crea un po’ di imbarazzo ospitare la sede di un’associazione presieduta da una persona sulla quale pende una condanna di primo grado?”. Don Albino ribadisce: «Se imbarazzo c’è o ci dovrebbe essere, questa è una questione esclusivamente interna al Comitato. La parrocchia si occupa unicamente del rispetto della devozione delle oltre duemila persone che animano la comunità calabrese della zona. A noi tutto il resto non interessa».
Il volume “L’altra Valle d’Aosta” rappresenta il culmine di un impegno volontario di un anno. Un punto di arrivo della rete di Libera Valle d’Aosta (nata il 20 novembre 2008) che si è già trasformato in punto di partenza.
Per questo ho scritto, come giornalista di «Narcomafie», il dossier del numero di maggio della rivista “Caduti dalle nuvole”. Perché, come diceva il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, “chiunque pensi di combattere la mafia nel pascolo palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo”. Noi reputiamo che di tempo se ne sia perso abbastanza. Troppo. E che dalla storia bisogna imparare.