L’accusa, rappresentata dal pm Stefano Castellani (a cui si affianca il pm aggiunto Daniela Isaia distaccata dalla Procura aostana) aveva chiesto 8 anni per Claudio Taccone, 8 anni e 8 mesi per Ferdinando Taccone, 6 anni per Vincenzo Taccone e Domenico Mammoliti e, infine, 2 anni e 8 mesi per Santo Mammoliti.
La sentenza di primo grado, che riconosce l’aggravante del metodo mafioso ai reati contestati a vario titolo agli imputati, viene emessa a distanza di un anno e quattro mesi dagli arresti avvenuti ad Aosta all’alba del 22 giugno 2013, dopo un anno di indagini: già allora, i Carabinieri avevano sottolineato il modus operandi violento, “sopra le righe” e riconducibile “ai codici della ‘ndrangheta”, evidenziando che il capofamiglia Claudio aveva ammesso, nel corso delle intercettazioni, “di essere un esponente della famiglia Pesce di Rosarno, in effetti è anche imparentato in maniera acquisita con membri di questa famiglia e lasciava intendere che poteva su di loro contare” .
Gli inquirenti riferiscono dell’esistenza di legami ‘ndranghetisti tra la Calabria e la Valle d’Aosta – nello specifico con le famiglie Pesce e Facchineri – e di “una gestione territoriale che arriva direttamente dalla Calabria”.
Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro 60 giorni. Claudio, Ferdinando e Vincenzo (insieme ad un altro dei loro fratelli, Alex) sono già stati condannati per aggressione in un processo svoltosi ad Aosta la scorsa primavera.
Sia in quella circostanza che all’indomani degli arresti, la moglie di Claudio Taccone, Maria Cristina Fazari, aveva dichiarato che la sua famiglia “non c’entra niente con la mafia”.
Le difese – Francesco Bosco per la famiglia Taccone, Antonio Laganà per i Mammoliti – hanno dichiarato che ricorreranno in appello.