Di Attilio Occhipinti
La voragine al km 5 dell’autostrada A29, quella che porta a Palermo, è ancora lì. Non si è mai chiusa del tutto. Il boato causato dai quattrocento chili di tritolo che ventuno anni fa stroncarono le vite del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, si sente tuttora in lontananza. Se ne sente l’eco.
La voragine e il boato. La prima l’abbiamo vista tutti in televisione, chi prima e chi dopo, grandi e piccoli; il boato invece lo hanno potuto udire in pochi, ma chissà in quanti lo hanno immaginato.
La voragine e l’indignazione
E’ sconsolatamente interessante come si possa studiare a tavolino la rimozione fisica di una persona. La lucidità necessaria per elaborare un piano, scegliere l’artiglieria, organizzare i turni per gli appostamenti, decidere il luogo, guardare l’orologio e premere un pulsante. Tutto in modo svizzero, preciso. Un’efficienza da fare invidia. Un orrore. Ma quel 23 maggio del ’92 ha davvero inorridito le coscienze? E la morte, di lì a poco, del giudice Paolo Borsellino? Quanto è profonda quella voragine è difficile da dire. Dopo più di vent’anni la mafia è ancora viva e vegeta, anche se ha subito alcuni danni, come gli arresti eccellenti di Riina, Provenzano, Lo Piccolo.
Il fatto è che le stragi del ’92 dovevano scuotere le fondamenta dello Stato, dovevano interrompere il lavoro di chi stava provando a fare terra bruciata intorno ai cosiddetti “uomini d’onore” e allo stesso tempo potevano essere l’occasione di riscatto per un intero popolo. Intrecci strani, è vero. Ma se è vero che dalla decadenza e della distruzione può nascere qualcosa di buono e addirittura qualcosa di meglio, allora quella poteva essere la nostra occasione. L’indignazione massima che corrisponde alla massima reazione. Per tanta gente è stato così, l’antimafia fatta dai tanti uomini e dalle tante donne ha continuato la sua coraggiosa azione, eppure quella voragine c’è ancora. Come mai? Falcone diceva che “la mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. Già, la battaglia che impegna le istituzioni. Viene in mente Pippo Fava, il quale, intervistato da Enzo Biagi, affermava di aver assistito a molti funerali di Stato e di aver visto spesso gli assassini sul palco delle autorità.
La nostra realtà
Una realtà amara, con la quale abbiamo imparato a convivere in questi anni, notizia dopo notizia, sui giornali e in televisione. Poi magari vediamo le foto in bianco e nero di Falcone e Borsellino o il film I cento passi e tutto diventa chiaro, riaffiorano i ricordi e si sveglia pure un po’ di sana rabbia. Ma il passo falso l’abbiamo commesso prima: aver imparato a convivere con questa disgustosa realtà è stato l’errore. Quando diventa “normale”, quando diventa “abitudine”, quando diventa “che ci possiamo fare, l’Italia è così”, allora è in quel momento, in quel preciso istante, che ci siamo messi fuori gioco da soli.
Il riscatto deve partire dal popolo e allo stesso tempo, diceva Falcone, le istituzioni devono muovere guerra alla mafia. E la fiducia allora chi se la merita, il popolo o lo Stato? Sarebbe bello non dover scegliere.
A ventuno anni dalla strage di Capaci quella voragine è ancora lì dove l’abbiamo lasciata. E il boato? Bè, quello è uno strazio che dovrebbe risuonare dentro di noi, sempre. Forse ci aiuterebbe a scegliere e a capire chi sono i colpevoli, quelli veri.